
Scrivo questo post in risposta all’ottimo articolo di Richard Hanania raccomandatomi da un amico su twitter, che ringrazio. Consiglio a tutti di leggere l’originale, è lunghino ma ne vale la pena.
Hanania, phd in Relazioni Internazionali fuggito dal mondo accademico dove si sentiva ingabbiato, inizia mettendoci davanti ad una dolorosa, ma necessaria, realtà: “Gli esperti“, sull’Afghanistan, hanno clamorosamente sbagliato.
Petraeus, artefice del “troop surge” di Obama, aveva un phd a Princeton ed era considerato il massimo esperto di controinsurrezione. Ghani, il Presidente afghano fuggito in modo vergognoso dalla sua capitale con macchine piene di soldi, è un phd in antropologia ed ha persino scritto un libro su “Come aggiustare uno stato fallito“, insomma, più “esperto” di così è impossibile.
I talebani, dal canto loro, non hanno neanche un phd nei loro ranghi e – come sostiene Hanania – usano le loro energie intellettuali per studiare ed interpretare il corano, adottando invece un approccio tremendamente pragmatico alla guerra. Ed hanno vinto.
Ma la paternità delle idee sbagliate non è solamente di Petraeus o di Ghani, no, Hanania punta correttamente il dito contro l’intero milieu accademico delle scienze politiche angloamericane.
Tutti gli accademici che per vent’anni hanno ripetuto, sui paper, sui giornali e in televisione, le teorie del “nation building“, della “pace democratica”, della “fine della storia” che Biden ha liquidato – brutalmente e come se nulla fosse – con una frase durante la conferenza stampa in occasione dell’attentato all’areoporto di Kabul, dando ragione a molti reietti dell’Accademia che (come Hanania) hanno spesso sostenuto questa tesi al costo della loro carriera accademica.

COME E’ STATO POSSIBILE?
Per spiegare il fallimento di un’intera branca delle scienze sociali, Hanania formula un’interessante teoria: Il mondo accademico americano è inquinato dall’eccessiva specializzazione, e la specializzazione non è positivamente correlata con l’aver ragione; come lo sono invece l’intelligenza (approssimata con il QI) e l’uso abituale di “buone pratiche intellettuali”. Per dimostrare ciò, cita il lavoro di Philip Tetlock: “Expert Political Judgment: How Good Is It? How Can We Know?“. In questo studio, Tetlock sostiene empiricamente che gli esperti del campo non siano migliori dei “non addetti ai lavori” con un certo grado di educazione, nel prevedere eventi geopolitici ed economici.
Una scoperta senz’altro interessante, che non sorprende chi tra noi, durante l’ultimo anno e mezzo, ha fatto attenzione alle predizioni degli esperti in materia sanitaria.


Ed è qua che l’analisi di Hanania trova forse i suoi limiti. Infatti, laddove l’Autore vede solo ignoranza dovuta ad un’Accademia scientista e dogmatica, più preoccupata della diversity che dell’intelligenza e delle buone pratiche intellettuali dei suoi esponenti (cosa comunque assolutamente vera), è possibile individuare anche una buona dose di malafede.
Perché come l’Autore giustamente denota, il pubblico generale della politica estera non si preoccupa, non la conosce, non gli interessa.
Pertanto, se l’elite decide che bisogna fare una guerra, raramente può sperare di “venderla” al pubblico spiegandone i reali motivi che, attenzione, possono essere anche totalmente legittimi, ma difficilmente saranno comprensibili dalla popolazione.
Questo non è un concetto nuovo. Clausewitz – all’inizio dell”Ottocento – diceva che la guerra ha 3 anime: Estensione della politica con altri mezzi, riservata ai politici, “giuoco probabilistico”, arte riservata ai militari; e infine inimicizia, riservata al popolo. Insomma, per far si che una guerra abbia successo bisogna che il popolo provi una reale inimicizia, che sostenga la guerra con passione. Laddove questa inimicizia non sia già presente di suo, bisogna crearla.
LA GENTE LO VOGLIONO
Sicuramente nel 2001 – per ovvi motivi – non vi era una scarsità di inimicizia provata dal popolo americano, ma 10 anni dopo, 20 anni dopo, Elijah, proprietario di una piantagione di pannocchie in Alabama, inizia a chiedersi: “Sono morti migliaia di americani, abbiamo speso trilioni di dollari mentre il mio bel paesello rurale è attanagliato dalla povertà e dall’abuso di anfetamine, esattamente, cosa ci facciamo ancora in Afghanistan?“.
E allora, come spiegare che una presenza militare tra Russia, Iran e Cina, in piena via della seta, è necessaria? Come spiegare che alla CIA serve l’oppio per accumulare fondi neri e che al complesso militare-industriale serve aumentare gli utili? Semplicemente, non è possibile.
La Karen suburbana deve emozionarsi sentendo dell’apertura del primo corso universitario di “gender studies” a Kabul. Il giovane neolaureato in “globalization studies” – e stagista dell’ONU a New York – deve davvero credere che tramite la “democratizzazione” angloamericana a mano armata di tutto il mondo non ci saranno più guerre.
La bandiera arcobaleno sull’ambasciata di Kabul (poco importa che sotto il governo Ghani l’omosessualità fosse punita col carcere) ricorda a Rula, ex radicale di sinistra e ora trovatasi a difendere le ragioni dell’imperialismo americano in tv, che la sua è una battaglia di civiltà. Elijah invece – che è più conservatore – deve sentirsi dire che i boys che partono per l’Afghanistan vanno a fare la guerra ai maomettani, così da non doverla combattere nella sua piantagione.
La propaganda deve essere multi-dimensionale e non discriminatoria per offrire un consensus il più ampio possibile alle priorità strategiche di una “moderna democrazia”. Deve appassionare il vecchio conservatore del Nebraska così come la giovane dottoranda della Berkley University.

CREARE IL CONSENSO
In Cina si utilizzerebbero i media di regime, monopolizzando l’intero spazio informativo e silenziando le voci in dissenso, nel “mondo libero” si fa sostanzialmente la stessa cosa, ma in modo più soft: Ai critici semplicemente non viene data visibilità e vengono costretti a dibattiti impari. Nel saggio dal titolo provocatorio “Presstitutes“, il (prematuramente scomparso) giornalista tedesco Udo Ulfkotte ci parla della formula “3 contro 1” dei talkshow, a cui ogni spettatore abituale di “Otto e Mezzo” (o simili) è abituato). Il messaggio che invece deve passare, viene spinto tramite un sofisticato sistema di incentivi.
Non dobbiamo stupirci se, laddove chi possiede i media sono le stesse persone che finanziano le campagne dei politici, o talvolta sono addirittura gli stessi politici, laddove i mezzi di informazione mainstream hanno come principale bacino di reclutamento i servizi segreti e l’Accademia per fare ricerca ha bisogno di fondi statali e privati (quindi, in quella che è di fatto una plutocrazia, controllati dalle stesse persone); non bisogna sorprendersi se in televisione “gli esperti” ripetevano tutti le stesse cose, se dai paper peer-reviewed si giungeva sempre alla stessa conclusione: “In Afghanistan va tutto bene“.
Questa finta unanimità veniva usata per rafforzare ancora di più le tesi pro-guerra: Lo dicono tutti gli esperti. Chi pretende di saperne più di loro? (Ricorda qualcosa?).
Non dobbiamo quindi pensare che “gli esperti” si ritrovino in stanze buie per ricevere ordini di scuderia da oscuri personaggi dei servizi segreti, la questione è molto più noiosa di quanto appare.
Semplicemente, se sei un Professore, se hai un think-tank, se sei un giornalista e vuoi entrare nei giri che veramente contano, vuoi ricevere lauti fondi per le tue ricerche, vuoi un contratto da pundit per un grande network televisivo, devi dire quello che vogliono sentirsi dire, talvolta mentendo anche spudoratamente, altrimenti – con la tua libertà intellettuale – apri una newsletter su Substack e resti ai margini, come ha fatto Hanania e come hanno fatto molti altri.
Questo vale anche per le voci di “dissenso”: Non è un caso che il poster boy dell’opposizione alla partecipazione italiana nella guerra in Ucraina sia diventato proprio Alessandro Orsini, un Professore della LUISS – che seleziona la classe dirigente della politica estera italiana e lavora a stretto contatto con la NATO – che prima di ogni intervento televisivo ripete, come se fosse una professio fidei, la sua estrema fedeltà all’Alleanza Atlantica.
Che dal mainstream media - quando si tratta di conflitti bellici, ma non solo - escano quasi esclusivamente menzogne, come ha nuovamente confermato la guerra in Ucraina, non deve pertanto sorprenderci. Sta facendo il suo lavoro, come organo di propaganda bellica di una "nazione moderna".

12 pensieri riguardo “Essere pagati per non capire”