Questo post è la terza parte su tre [PRIMA PARTE | SECONDA PARTE] di una serie sull’influenza italiana in nordafrica dall’unità d’Italia ad oggi. Seguito da un quarto contributo sulla guerra civile libica oggi ed Enrico Mattei.
Nell‘ultima parte, ci eravamo lasciati così: Finisce la guerra fredda, ed immediatamente nel mondo arabo iniziano a sentirsi le onde d’urto.
Bush senior, in occasione del successo dell’operazione Desert Storm, dichiarava l’inizio di un nuovo ordine mondiale. Un ordine naturalmente guidato dagli Stati Uniti, potenza trainante della coalizione angloamericana vincitrice di tre guerre mondiali.
Naturalmente questo – per i regimi una volta supportati dall’URSS – pose subito dei problemi: L’anglosfera chiedeva – e lo chiedeva subito – di prendere una chiara posizione a favore del nuovo ordine mondiale, quindi attuando liberalizzazioni economiche secondo il Washington Consensus (e il più antico principio della “porta aperta) oltreché abbandonando ogni velleità di antiamericanismo o antisionismo. Si chiedeva agli stati arabi di affrontare un processo simile alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, adottando la “Dottrina Kosyrev“, oppure di affrontarne le conseguenze.
LE GUERRE DEL NUOVO ORDINE MONDIALE
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Questa seconda opzione fu sperimentata per la prima volta in Yugoslavia: Si intervenne nelle tensioni etniche e politiche presenti nel paese per bombardarlo, smembrarlo, dividerlo in più stati possibile. Uno di questi paesi, la Bosnia, è ad oggi tutt’ora l’unico stato al mondo la cui massima autorità legale e politica è nominata ufficialmente da potenze e organismi internazionali stranieri.
Di particolare interesse fu il principio “legale” stabilito: La potenza egemone diventava legittimata ad intervenire militarmente in ogni luogo del mondo, in qualsiasi momento, secondo principi piuttosto elastici ma sempre buoni per legittimare le espansioni dell’impero angloamericano: Ora l'”intervento umanitario” – come in Kossovo nel 1999 – ora secondo il concetto di “legittima difesa preventiva globale” elaborato dall’amministrazione Bush – dopo l’11 settembre – con la National Security Strategy del 2002.
Desert Storm prima e le guerre di Yugoslavia poi – effettivamente grandi successi militari – furono una chiara affermazione della volontà (e della reale potenza) egemonica angloamericana.
Tornando al mondo arabo, esistevano dei paesi già fortemente legati all’anglosfera: Gli stati del Golfo Arabo, la Giordania e il Marocco. Tutti paesi definibili, nel sentire comune europeo ed angloamericano, dittature. Non sfiorati dagli “interventi umanitari” americani, nemmeno quelli come l’Arabia Saudita che – sicuramente più dell’Iraq di Saddam o dell’Afghanistan talebano – si potevano e potrebbero ancora tranquillamente definire “sponsor del terrorismo”, usando una tipica locuzione atlantista.
Vi era l’Egitto, dove nominalmente il partito di Nasser governava ancora, ma dove de facto era avvenuto – dai tempi di Sadat e soprattutto dopo la guerra del Kippur – un graduale avvicinamento agli USA, che comprese liberalizzazione economica ed accordo di pace con Israele.
Mubarak continuò su questa falsa riga prima e dopo la fine della guerra fredda. L’Egitto si trovava quindi in una sorta di limbo.
Per tutti gli altri (escluso il Libano, situazione a se), era giunta la resa dei conti.
Questi paesi si dovevano preparare innanzitutto a gestire problemi interni, non godendo più del supporto dei paesi del comintern, con cui la loro economia socialista era integrata. In secundis, non più protetti dalle armi (talvolta anche nucleari) sovietiche, ad affrontare i loro storici rivali militari: Israele, USA, ma anche le ex potenze coloniali – Francia e Gran Bretagna – con cui avevano avuto pessimi rapporti durante la guerra fredda, spesso con sponde da parte dell’Italia.
L’invasione dell’Iraq fu forse il momento culminante delle tentazioni unipolariste americane.
Il paese fu invaso nel 2003 sostenendo che fosse dotato di armi chimiche, giustificazione poi rivelatasi completamente falsa.
Per ragioni già in parte spiegate in altri post, non andò bene come in Yugoslavia.
Il pozzo nero in cui gli USA e la NATO si infilarono con l’occupazione di Iraq ed Afghanistan – sebbene molto redditizio per certi settori dell’economia americana – portò allo screditamento di una strategia puramente militare per attuare cambi di regime, specie in zone del mondo con situazioni etniche e religiose così complicate, e così poco comprese dagli angloamericani. Inoltre, l’approccio estremamente aggressivo degli americani fu mal digerito dai “partner” europei dell’Alleanza Atlantica, più inclini al dialogo verso i paesi arabi, e meno desiderosi di partecipare ad avventure militari in zone remote del mondo, osteggiate dall’opinione pubblica. Almeno fino agli attacchi di Madrid e Londra, gli “11 settembre” europei.
Le rivolte sociali scoppiate nel mondo arabo nel 2011, furono l’occasione per tentare un approccio diverso.

LA PRIMAVERA ARABA IN LIBIA
Una grande protesta popolare – scoppiata in Tunisia contro il carovita – venne amplificata e direzionata tramite fondi, media, social media e armi angloamericane per stravolgere completamente gli equilibri politici della regione.
Stiamo parlando delle “primavere arabe”, ritenute dal Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate della Federazione Russa – Valery Gerasimov – un importante caso di studio della guerra moderna, la guerra multi-dominio, dove ogni aspetto della vita – non solo quello militare/cinetico – è campo di battaglia.
Cosa significava questo per l’Italia? Partiamo dal paese più importante: La Libia.
L’intervento armato della NATO in Libia viene proposto e guidato dalla Francia, gli USA di Obama attueranno una politica di “leading from behind“, coerente con l’ispirazione democratica di stampo clintoniano a coinvolgere la “comunità internazionale” (nel migliore dei casi il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, altrimenti coalizioni dei volenterosi ad hoc) nei progetti egemonici americani, per renderli più politicamente digeribili alla propria base cosmopolita.
I fattori che si intersecano in questo intervento sono molti, e non solo di matrice americana, ma anche prettamente europea.
Siamo nel momento in cui Gheddafi sta per lanciare il suo progetto di moneta aurea africana, dichiaratamente avversario del Franco CFA, progetto visto con estrema avversione dal Presidente francese Sarkozy.
Siamo nel momento di massima amicizia e cooperazione energetica tra Italia e Libia, una cooperazione di lunga data, da sempre una spina nel fianco sia per gli interessi petroliferi anglofrancesi, sia per il controllo americano sul continente europeo.
Da parte italiana ci fu una debolissima – e colpevolissima – opposizione a questo intervento. Una volta deciso di non ostacolarlo, si scelse quindi di prenderne parte per poter almeno incidere sul futuro del paese post-Gheddafi, troppa era l’importanza dei legami energetici per poter lasciare mano libera alle altre potenze in gioco.
Tra i due schieramenti che si coalizzarono dopo il caos iniziale, l’Italia scelse il GNA basato in Tripolitania, tradizionale zona d’influenza italiana, riuscendo anche a farlo riconoscere dall’ONU, appoggiata dalla Germania.
La Francia – ovviamente – scelse quello opposto, sostenendo il maresciallo Haftar in Cirenaica, dove subito iniziarono le operazioni della compagnia petrolifera nazionale francese, Total.
L’Italia – nuovamente – sostenne troppo timidamente i propri alleati in loco. L’LNA di Haftar giunse fino a Tripoli, l’ambasciata italiana venne evacuata (più volte), italiani vennero rapiti, stabilimenti dell’ENI bombardati.
A salvarci dalla completa debacle fu solo l’improbabile alleanza con la Turchia, che nel 2020, impiegando direttamente i suoi droni (mostratisi decisivi anche nel Nagorno-Karabakh), costrinse alla ritirata le truppe dell’LNA fino al raggiungimento di un’accordo di pace.
Nonostante la situazione in Libia rimanga instabile, l’Italia mantiene – esclusivamente grazie all’intervento turco – delle notevoli posizioni, sia per quanto riguarda l’ENI che per quanto riguarda i contratti commerciali della ricostruzione.
Naturalmente, il supporto turco non è stato gratuito. Erdogan ha guadagnato per la Turchia un’enorme influenza commerciale laddove prima della guerra non ve n’era alcuna, ma non solo.
La Turchia ha preso il controllo della guardia costiera libica (prima in mano italiana) guadagnando così un’ulteriore arma ricattatoria contro l’UE (in particolare contro Italia, Francia, Germania e Benelux) tramite il controllo della rotta migratoria mediterranea, oltre a quella – già ampiamente usata – balcanica.

LA PRIMAVERA ARABA IN EGITTO
Per quanto riguarda l’Egitto – come evidenziato sopra – le cose sono leggermente diverse.
L’Egitto è tradizionalmente zona d’influenza inglese, essendo stato una colonia britannica.
L’avvio di importanti relazioni commerciali Egitto-Italia è invece un fatto recente, e si può riassumere in due dati: La scoperta – nel 2015 e nel 2018 – di due bacini di gas naturale tra i più grandi al mondo, da parte di Eni; la stipulazione di importanti commesse militari, tra cui la vendita di due fregate FREMM (1,3 miliardi di euro) e un nuovo accordo in fase di conclusione, che dovrebbe valere intorno ai 10 miliardi. Un ottimo caso di studio peraltro, riguardo a due capisaldi della nostra politica estera: Approvvigionamento di materie prime da parte di ENI e commesse per le aziende di Stato.
Questi importanti sviluppi, quindi, sono avvenuti con l’attuale Presidente egiziano Al-Sisi già al potere; dopo un golpe – contro i fratelli musulmani – che aveva messo fine alla brevissima “primavera araba” egiziana. Golpe che fu caldamente supportato dall’allora Presidente del Consiglio, Renzi. Evidentemente il supporto pagò.
Veniamo quindi al lato spinoso della faccenda.
Il problema principale nelle relazioni Egitto-Italia è causato da due eventi che hanno avuto ampio risalto mediatico: L’uccisione del ricercatore Giulio Regeni da parte dei servizi segreti egiziani e l’incarcerazione dello studente egiziano di UniBo, Patrick Zaki. Sentiamo continuamente parlare di questi due casi in televisione, abbiamo visto dibattiti parlamentari, rottura dei rapporti diplomatici con l’Egitto, petizioni per sospendere la vendita di armi.
E’ importante analizzare questi due eventi con la giusta chiave di lettura.
Di Regeni dobbiamo innanzitutto sottolineare che fosse in Egitto per svolgere una ricerca in quanto studente dell’Università di Cambridge, un’università britannica.
Un’università britannica che si è più volte rifiutata di divulgare i dettagli di queste ricerche, oltretutto. E la commistione tra mondo accademico e servizi segreti – soprattutto a Londra – non è niente di nuovo.
Questo non significa che Regeni fosse un agente dell’MI6, cosa che tra l’altro i familiari hanno sempre negato. Ma che qualcuno abbia scelto di mandare proprio un italiano a stuzzicare un regime golpista – ai tempi instabile – guardacaso proprio mentre l’ENI scopriva il deposito Noor… è sicuramente plausibile, e quantomeno sospetto.
Il filo conduttore con Zaki che – è bene ricordarlo – non è cittadino italiano, si trova nell’ONG che più si è fatta carico delle campagne pubblicitarie sia per il caso Regeni che per il suo: Amnesty International.
Amnesty International fu fondata da un ex agente dei servizi segreti inglesi durante la guerra fredda, e di recente è stata colta in comprovate campagne di diffamazione contro regimi ostili al governo britannico (da cui riceve fondi): Un rapporto sul Sudan senza averlo mai visitato, una descrizione fraudolenta delle proteste in Iran, il supporto ad un gruppo di opposizione siriano finanziato dal governo britannico, il supporto dell’opposizione marxista e islamista in India contro il governo di Modi.
Sono esempi sufficienti per definire un pattern o sollevare importanti dubbi sulla sua compromissione con gli obiettivi di politica estera britannici? Riteniamo di sì.
Non esistono prove schiaccianti, per sostenere che quanto abbiamo visto sia parte di un’azione dei servizi segreti inglesi, volta a ridurre l’influenza italiana in Egitto, è vero. Ma resta comunque un’opzione altamente meritoria di considerazione, alla luce della fine della guerra fredda; che ha riaperto nuovi spazi per la competizione tra le potenze europee grazie alle crisi dei regimi filo-sovietici. Alla luce della dirompente penetrazione commerciale dell’Italia in un paese, l’Egitto, roccaforte degli interessi inglesi. Alla luce di numerosi interrogativi riscontrabili in queste due vicende: Perché l’Università di Cambridge è così opaca nel discutere i motivi del viaggio di Regeni?
Perché un cittadino egiziano incarcerato in Egitto si trovava costantemente sui telegiornali italiani e nei programmi televisivi italiani? Perché i cartonati in giro per tutta Italia, e chi li finanziava?
Ci sono italiani in giro per il mondo ostaggio dell’ISIS, ci sono regimi che ai loro cittadini fanno molto di peggio che una carcerazione preventiva. Ma si parlava sempre, solo di Zaki.
Ed è stata votata una mozione per conferirgli la cittadinanza italiana, quasi a voler creare un incidente diplomatico dove non c’era. Sponsorizzata dalle legion d’honneur nostrane, in un macabro e farsesco revival della spirito di Suez del ’56.


CONCLUSIONE
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Opinioni personali su vicende molto opache.
Quel che è certo è che con la fine della guerra fredda e il riassetto politico forzato delle regioni del Nord Africa e del Vicino Oriente, si sono aperti nuovi spazi di competizione tra l’Italia e le potenze che sempre – dalla sua nascita – si sono con essa contese espansioni commerciali e militari nella regione. Sia quando siamo stati nemici che quando siamo stati “alleati”, come siamo oggi (lo siamo?).
L’Italia continuerà a cercare l’espansione nel mare nostrum.
Continuerà a dover cooperare e scontrarsi con le altre potenze mediterranee (Francia, Turchia) e oceaniche (Regno Unito, Stati Uniti) per farlo, sfruttando al meglio le opportunità che i fattori interni agli stati arabi e alle loro popolazioni presenteranno.
Si spera, con i giusti esempi in mente.
14 pensieri riguardo “Il mare nostrum nell’unipolarismo americano”