Per un resoconto completo della guerra del Donbass fino al 2021, vedi: La guerra del Donbass
LE 3 ANIME DELLA GUERRA IN UCRAINA
Il retroterra della guerra su larga scala iniziata il 24 febbraio 2022, evitando per il momento – per forza di cose – di andare troppo indietro nel tempo parlando di rivoluzione arancione, Unione Sovietica, Russia imperiale e Rus’ di Kiev, è rappresentato dagli 8 anni precedenti di guerra civile in Ucraina scaturiti dal golpe / dalla rivoluzione colorata del Maidan, anche definibili come una guerra limitata tra Russia e Ucraina. Limitata – nella fattispecie – all’annessione della Crimea, al supporto materiale e politico dato ai ribelli del Donbass da parte della Russia e – in un periodo che va dall’estate 2014 al febbraio 2015 – alla partecipazione diretta russa in alcune determinanti battaglie in Ucraina, come quella di Ilovaisk o dell’aereoporto di Donetsk.
Certamente, gli 8 anni precedenti possono essere anche inquadrati nell’ambito di una guerra per procura tra la NATO (più precisamente, alcuni paesi NATO) e la Russia, che ha coinvolto anche – in diversa misura – paesi ad essa alleati o sotto la sua influenza. Un conflitto di portata globale quindi.
Questa guerra per procura (come è stata combattuta dai russi è stato appena detto) è stata combattuta dal lato opposto principalmente da USA, Regno Unito e Polonia, nella misura in cui questi paesi (e altri, come i baltici) hanno dapprima sostenuto – e si potrebbe dire in parte architettato – il Maidan, e in seguito hanno armato e addestrato l’Ucraina maidanista; oltre a cercare di “imbrigliarne” la leadership politica con varie leve, come a sua volta ha fatto la Russia con i separatisti del Donbass (inizialmente attori quasi del tutto indipendenti da Mosca).
E’ una suddivisione per strati imprescindibile, vanno considerati tutti e 3, non si può analizzarne solo uno per capire il conflitto. Riassumendo: Guerra civile ucraina, guerra Russia-Ucraina, competizione geopolitica in Ucraina.

GLI ACCORDI DI MINSK E LA LORO FINE
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Gli accordi di Minsk, siglati al termine della contro-offensiva russo-separatista nel Donbass, miravano a risolvere tutti e 3 questi problemi, tramite la “bosnizzazione” del paese. In Ucraina, le regioni reintegrate del Donbass avrebbero avuto potere di veto, in rappresentanza generale della consistente popolazione etnicamente russa del paese. Questo avrebbe di fatto reso l’Ucraina un paese neutrale, in quanto plausibilmente ogni tentativo di entrare nella NATO o nel CSTO si sarebbe scontrato con il veto di russi o ucraini. Gli Accordi furono firmati da Ucraina, Russia, separatisti e OSCE, e furono verbalmente supportati anche da USA, UE, Germania, Francia.
Evidentemente (in caso contrario sarebbero stati implementati) gli accordi di Misnk, pur partendo da obiettivi sensati e condivisi dalle varie parti interessate, si rivelarono tutto fuorché perfetti. Vuoi per la difficoltà pratica di implementarli (si pensi al tentativo fallito della “formula Steinmeier“) vuoi perché la leadership maidanista ha sempre mal digerito gli accordi, visti – correttamente in effetti – come una concessione fatta da Kiev per fermare l’offensiva russo-separatista – e per guadagnare tempo prima di ricominciare le ostilità con un rapporto di forze più favorevole – vuoi per la totale assenza della Crimea, considerata dai russi territorio sovrano al pari di “Rostov e Voronezh“.
Mentre la Russia considerava gli Accordi una soluzione soddisfacente, e continuava a spingere per la loro implementazione – anche causando malumori tra i separatisti – l’Ucraina maidanista, sempre più sicura di se, con un esercito ormai ben armato e addestrato (dalla NATO) ormai lontano dalle condizioni disastrose in cui versava nel 2014, inizia ad agire in modo più proattivo, cestinando gradualmente gli Accordi in un periodo tra il 2017 e il 2018, databile cronologicamente in modo abbastanza preciso.
A inizio 2017 – mentre il senatore americano Lindsay Graham visita la linea di contatto insieme a Poroshenko e dichiara “Il 2017 sarà l’anno dell’attacco” – l’Ucraina lancia un'”offensiva strisciante” nella zona grigia tra i due fronti. I combattimenti più duri si vedranno ad Avdiivka, una località industriale di fondamentale importanza strategica nella zona demilitarizzata demarcata dagli accordi di Minsk. Il 18 gennaio la Rada Suprema ucraina vara una risoluzione che prevede la riconquista militare delle regioni separatiste. Ad aprile dello stesso anno Kiev mette fine all’Anti Terrorist Operation (ATO) trasformandola in Joint Forces Operation (JFO), definendo la guerra non più come civile ma come conflitto con la Russia, stabilendo la necessità di espellere le FAR dal territorio ucraino, quindi sconfessando lo spirito e la lettera degli Accordi, basati invece sul (falso, ma utile ai fini della negoziazione) presupposto che il conflitto ucraino fosse unicamente interno. A fine mese, gli USA annunciano di aver già consegnato i primi missili Javelin alle forze armate ucraine.

CAMBIO DI ATTEGGIAMENTO RUSSO
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Dal febbraio 2015 al febbraio 2017 l’atteggiamento russo si può definire come piuttosto passivo e attendista – nell’ambito di un conflitto che rimaneva congelato – aldilà della retorica e delle violazioni del cessate il fuoco; limitate a schermaglie con artiglieria e fanteria leggera, senza variazioni territoriali. Si nota un cambio di posizione quasi immediato quando, due settimane dopo l’offensiva ucraina per ricatturare Avdiivka, il 18 febbraio 2018, Putin firma un decreto con cui la Russia riconosce i documenti d’identità e di guida dei cittadini delle repubbliche separatiste (ancora non riconosciute come stati da Mosca). E’ l’inizio della costruzione di un’alternativa, un piano B, rispetto agli accordi di Minsk.
A novembre dello stesso anno la marina russa – con una prova di forza – chiude temporaneamente il mare di Azov e sequestra delle navi ucraine. La situazione torna rapidamente allo status quo, ma il messaggio è chiaro.
E’ con questa nuova fase che, oltre alle consuete (e nuove) esercitazioni militari – nel Caucaso e in Bielorussia da parte russa, nel Mar Nero e nell’artico da parte NATO – si inizia a parlare ogni anno di “buildup” russo e di una possibile invasione. Chi ha, come il sottoscritto, sottovalutato la possibilità di un’invasione russa quest’anno, può almeno consolarsi del fatto che per anni si sia gridato “al lupo al lupo” senza che sia mai successo niente. E’ successo nel 2018, nel 2019, nel 2020 e infine, con particolare enfasi, nella primavera 2021.
A livello geopolitico lo scontro si inasprisce e si ramifica in Kazakistan – con la sommossa in cui Turchia e USA provano a giocare un ruolo – in Bielorussia, con il tentativo di regime change ai danni di Lukashenko, e in seguito con l’uso “erdoganiano” che quest’ultimo fa dei migranti al confine con la Polonia.
PERCHE’
Alla fine – come ben sappiamo – è stata la Russia ad invadere, a portare lo scontro ad un livello del tutto inedito, quello della guerra totale che oltre ad ingolfare l’intera Ucraina (e in misura minore, la Bielorussia e il territorio russo) lambisce pericolosamente i confini della NATO.
Il “perché” è stato spiegato sopra, anche se prima non era così chiaro: L’archiviazione degli accordi di Minsk stava rapidamente portando la situazione su un terreno sfavorevole per la Russia, che rimanendo passiva avrebbe potuto solamente difendere i separatisti del Donbass (senza dichiararlo) a fronte di attacchi ucraini sempre più forti. Certo, come si è sostenuto più volte qua, la disputa territoriale non avrebbe permesso all’Ucraina di entrare ufficialmente nella NATO o nell’UE, ma nell’ambito di valutazioni di sicurezza più ampie, la Russia si trovava di fronte ad uno stato ostile in costante riarmo. I missili tanto temuti da Putin non si sarebbero potuti installare (forse, o forse invece sì) ma la pressione sul fronte ovest, Bielorussia inclusa, era destinata a salire di anno in anno. In sostanza, la valutazione del Cremlino deve essere stata quella dell’impossibilità di una soluzione comprensiva per via diplomatica, che affrontasse l’intera “questione Ucraina” e non solo lo status di Crimea, Donetsk e Lugansk. Ne tramite gli Accordi di Minsk, ne tramite il dialogo strategico tentato come extrema ratio con gli USA, nell’inverno precedente l’invasione.
La Russia ha deciso di fornire un ultimatum a Ucraina e NATO alla scadenza del quale ha invaso, lanciando una “guerra preventiva” secondo i principi lucidamente introdotti da George W. Bush nel cosiddetto “rules-based order” post guerra fredda con queste parole:
“If we wait for threats to fully materialize, we will have waited too long” […] “We must take the battle to the enemy, disrupt his plans, and confront the worst threats before they emerge. In the world we have entered, the only path to safety is the path of action”.
George W. Bush, fonte

PERCHE’ A FEBBRAIO 2022
Se ci addentriamo nel “perché ora“, invece, la questione diventa molto meno chiara, ed entrano in gioco moltissimi fattori, forse troppi per essere presi tutti in considerazione.
Il primo – quello più ovvio – è stato già toccato, e riguarda il progressivo livellamento delle forze militari russa e ucraina. L’Ucraina dispone di un bacino demografico sufficiente a condurre una guerra d’attrito con la Russia, se armata a sufficienza. Naturalmente in uno scontro circoscritto a Russia e Ucraina, non c’è nessun paragone né demografico, né militare, né economico da fare. Ma anglosfera e “partner” europei, se da un lato non hanno reso realtà le magnifiche sorti e progressive che animavano le proteste del Maidan, imponendo riforme economiche propedeutiche all’entrata nell’UE (che Draghi, mostrando al mondo la limitatezza del suo orizzonte mentale, non ha mancato di ricordare a Zelensky chiuso in bunker, con le truppe russe a pochi kilometri dalla capitale) condannando l’economia ad un tasso di crescita per nulla entusiasmante per un paese in via di sviluppo, e utilizzando le proprie leve politiche per fondere gli interessi degli oligarchi ucraini con quelli occidentali – noto il caso del figlio di Biden nel consiglio d’amministrazione della compagnia energetica Burisma, caso che si è andato a ramificare anche nella disputa sui laboratori biologici – non ha lesinato nel sostegno militare a Kiev.
Il costante influsso di istruttori e armi avrebbe permesso all’Ucraina di essere una spina nel fianco sempre più fastidiosa per Mosca, che quindi si è trovata davanti ad un’edizione soft della trappola di Tucidide: Attaccare e vincere ora, o non poterlo più fare in futuro. E’ evidente che non stiamo parlando di un’offensiva ucraina su tutto il fronte, ma di un potenziale scenario georgiano nel Donbass di fronte a cui, anno dopo anno, il Cremlino avrebbe trovato sempre più difficile rispondere con forza.
Il secondo riguarda probabilmente, ma siamo nel campo della speculazione totale, la particolarissima congiuntura economica che sta vivendo l’Europa. Il covid ha creato enormi squilibri e fragilità nelle economie dell’UE, e Putin potrebbe aver pensato che per questo motivo la risposta sanzionatoria sarebbe stata più blanda.
Il terzo è semplicemente il fattore tempo: Pianificare una guerra di questa portata richiede tempo, preparazione, e non solo militare. La Russia ha lavorato negli ultimi anni, ad esempio, alla messa in sicurezza delle sue riserve (comprando oro, trasferendone parte di quelle in valuta fuori dall’occidente) e alla creazione di sistemi di pagamento alternativi allo SWIFT. In sostanza, la decisione potrebbe essere stata presa uno o due anni fa. Anche in questo caso però, è evidente che la preparazione fosse quantomeno acerba, visto che comunque una parte sostanziale delle riserve russe è stata sequestrata, e i nuovi meccanismi di pagamento si sono dovuti inventare on-the-fly, come nel caso dell’India o del gas-per-rubli.
Vi è poi la possibilità che a Putin – che comunque prevedeva una guerra nel prossimo futuro – sia stata forzata, in una certa misura, la mano dai separatisti, come quando l’armata del Kwantung invase la Manciuria non lasciando altra scelta a Tokyo se non appoggiare l’operazione.
Elaborando meglio: In un momento di particolare fermento del fronte del Donbass, con truppe russe ammassate intorno all’Ucraina per “esercitazioni” e per mettere pressione su NATO e Kiev affinché venissero accolte le richieste del Cremlino nei negoziati di sicurezza, i separatisti in loco potrebbero aver fomentato l’escalation, passando anche all’offensiva (cosa inusuale negli anni passati, vista la loro decrescente forza rispetto all’esercito ucraino) e poi minacciando di evacuare milioni di persone in Russia. A quel punto, Mosca si potrebbe essere trovata davanti ad un fatto compiuto, e potrebbe a quel punto aver deciso di “premere il grilletto”. E’ un fattore di cui discutevamo prima dell’invasione, che potrebbe aver influito.
OBIETTIVI
Passiamo ora agli obiettivi. Qual era, nel concreto, la strategia russa in Ucraina? E come la Russia ha cercato di perseguirla militarmente e politicamente?
E’ possibile parlare di un “piano A”, ormai fallito.
Questo “piano A” è individuabile nelle espressioni “denazificazione” e “demilitarizzazione” dal punto di vista politico, e nell’offensiva verso Kiev dal punto di vista militare.
Il “piano A” prevedeva una risoluzione rapida del conflitto, in particolare i russi speravano che con Kiev sotto pressione militare, l’Ucraina avrebbe acconsentito ad una rapida risoluzione del conflitto (una “Minsk con altri mezzi”, ma più dura, senza la reintegrazione dei separatisti) magari pure con l’aiuto di un colpo di stato, ricordando il richiamo di Putin affinché i militari ucraini rovesciassero Zelensky.
Curiose furono anche le dichiarazioni americane che prevedevano la caduta di Kiev entro poche ore dall’inizio delle operazioni, come se Washington volesse facilitare una soluzione di questo tipo.
Del resto, gli USA la guerra l’hanno vinta nelle primissime settimane, spingendo i “partner europei” a sanzioni suicide (risultate nella cattura americana delle industrie continentali) e facendo calare la nuova cortina di ferro con un “intermarium” estremamente forte dal punto di vista politico, nella posizione di fermare ogni velleità di autonomia strategica europea, sia nelle istituzioni comunitarie che – ove necessario – con la forza, come nel caso del sabotaggio dei gasdotti Nord Stream e Nord Stream 2, e dell’oleodotto Druzhba. Perché sprecare risorse e rischiare di creare divisioni interne con una lunga guerra?
E’ evidente la differenza nel modo in cui i russi hanno combattuto a nord rispetto a come hanno combattuto a sud. Bypassare città come Sumy e Chernigov, nel tempo delle spine nel fianco terribili per la logistica russa, aveva senso solamente se si pensava di restare per poco tempo in quelle regioni.
La Russia non voleva (e non poteva!) combattere una guerra d’attrito nel nord del paese, e infatti si è ritirata (non senza aver subito perdite considerevoli) quando la resistenza ucraina ha reso impossibile il “best case scenario“, una soluzione che riguardasse l’intero paese.
Quella che i russi chiamano “seconda fase”, dell’operazione militare speciale, è in realtà il “piano B”: Preso atto dell’irrecuperabilità definitiva di tutta l’Ucraina, la Russia porta la guerra sul piano territoriale, cercando di sottrarre più territorio possibile ad un’Ucraina che sarà sicuramente un avversario geopolitico e militare in futuro.
Per fare questo, la Russia si muove all’interno della “Novorussia“. L’area che va sostanzialmente dal Donbass al confine romeno.
In questa fase, la prospettiva di una soluzione politica (intesa come soluzione strutturale, che vada oltre un cessate-il-fuoco) è stata temporaneamente affossata, e la fine del conflitto probabilmente avverrà tramite uno stallo militare, quando si raggiungerà il punto in cui nessuna delle due parti riesce ad avanzare, e un cessate-il-fuoco congelerà il conflitto.
Quanto esattamente i russi riusciranno a prendere, non è possibile dirlo con certezza. Le analisi vanno da qualche villaggio del Donbass preso al costo di migliaglia di morti, ad un’avanzata fino alla Transnistria.
Di certo esiste anche la possibilità che le cose vadano estremamente male per i russi, e addirittura si assista ad un’incontrollabile avanzata ucraina. A quel punto, si aprirebbero scenari inediti, perché si entrerebbe in un territorio in cui la Russia non potrebbe più, con il coltello dalla parte del manico, mettere fine alla guerra alle sue condizioni e con qualche guadagno territoriale spacciabile per vittoria, ma si troverebbe sulla difensiva e con territori che non può assolutamente abbandonare, come la Crimea, ma anche Donetsk e Lugansk. Un “piano C” russo non esiste.
In questo caso, si assisterebbe ad una guerra su una scala ancora più larga, tra un’Ucraina inondata di armi da un’industria dei paesi NATO riconvertita per la produzione bellica, e una Russia totalmente mobilitata, con una coscrizione obbligatoria simile a quella che sta utilizzando l’Ucraina adesso. La possibilità di un coinvolgimento della Bielorussia e della Transnistria aumenterebbe, così come la possibilità di uno scenario nucleare (che rimane comunque fortunatamente improbabile, va detto).

CONCLUSIONE
La Russia ha deciso di risolvere militarmente il conflitto iniziato nell’Ucraina, con l’Ucraina e con la NATO nel 2014.
Il piano iniziale di rendere l’Ucraina un paese neutrale con una campagna di “shock and awe” non è andato a buon fine, ed ora assisteremo ad una guerra d’attrito in cui la Russia cercherà di ottenere i maggiori guadagni territoriali possibili, prima di abbandonare definitivamente (o almeno questa è l’idea) il resto dell’Ucraina.
E’ possibile che la Russia congeli il conflitto una volta ottenuti risultati che consideri soddisfacenti o massimizzati, ma è anche possibile che venga spinta sulla difensiva ed alzi ulteriormente il livello dello scontro, almeno finché i paesi NATO avranno la volontà di fornire un flusso costante di armi e denaro all’Ucraina.
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