
CHI CONTROLLA LE TERRE RARE, CONTROLLA I MEZZI DI PRODUZIONE
Ci troviamo a Valparaiso, un’anonima cittadina da 32mila abitanti nello stato americano dell’Indiana.
Entriamo in un capannone industriale adibito ad esibizioni canine e servizi di toilette per animali (con prodotti rigorosamente “Made in China“) ma l’edificio un tempo aveva una funzione diversa.
Siamo in quella che fu la sede della Magnequench, un’azienda americana che costruiva magneti, con i suoi 200 dipendenti, unica fornitrice dell’industria della difesa americana.
I magneti della Magnequench, costruiti con terre rare (minerali presenti in piccole quantità nel terreno, dalle proprietà magnetiche straordinarie) soddisfavano il fabbisogno dell’intera industria bellica americana: Venivano usati per costruire carri armati, F-35 e molto altro. Nel 2006, però, lo stabilimento di Valparaiso chiude, e la Magnequench si trasferisce a Tianjin, 130 chilometri da Pechino.
Da quell’anno in poi, gli USA dipenderanno dalla Cina per la fornitura di magneti necessaria all’industria bellica, ci spiega Guillame Pitron nel suo “The rare metals war“.
In realtà, però, l’industria bellica americana si trovava in una condizione di dipendenza dalla Cina già da prima.
Nel 1990, la compagnia mineraria MolyCorp – con la sua miniera a Mountain Pass in California – era un gigante dell’estrazione e raffinazione di terre rare, il leader mondiale del settore. Le lotte ambientaliste degli anni ’90, però, accompagnate di pari passo dall’espansione selvaggia del settore minerario cinese, senza il minimo riguardo per l’ambiente e le condizioni di lavoro, costrinse la compagnia – ormai non più competitiva – a chiudere nel 2002 (in mancanza di sussidi per un’operazione che senza dubbio doveva essere considerata dal governo americano come strategica, al pari dell’approvvigionamento alimentare).
I magneti prodotti da Magnequench, quindi, nel 2006 venivano già prodotti con materie prime estratte unicamente (o quasi) in Cina, costringendo di fatto un settore vitale per la competizione geopolitica – quale l’industria bellica – alla dipendenza dal più grande rivale (anche se nel 2006 forse non si sapeva che lo fosse).

La miniera di Mountain Pass ha riavviato le operazioni nel 2018, nel contesto della guerra commerciale sino-statunitense scatenata da Trump (e proseguita in modo creativo dai cinesi) arrivando al sorprendente risultato di estrarre – nel 2020 – il 15% delle terre rare su scala globale.
Un passo da giganti, ma c’è un piccolo problema: Il governo cinese possiede almeno l’8% della compagnia che gestisce le operazioni (almeno perché è difficile stabilire quale sia la quota cinese nei vari fondi di investimento americani che possiedono le restanti azioni).
Questo perché la Cina – dall’inizio degli anni 2000′ – ha evoluto la sua strategia.
Il predominio acquisito nel settore delle terre rare tra gli anni ’90 e i primi 2000′, ha permesso alla Cina di dettare le condizioni al settore secondario di tutti i paesi NATO ed alleati che – in mancanza di strategie nazionali e in preda invece alla privatizzazione di tutte le industrie strategiche – hanno subito una desertificazione industriale senza precedenti.
Le industrie occidentali private – orientate al profitto a breve termine – ma francamente senza molte altre opzioni (tendenza accelerata ulteriormente dall’embargo non dichiarato delle terre rare cinesi dopo la crisi finanziaria del 2008), si sono trasferite una ad una, pezzo per pezzo, in Cina, a causa del basso costo del lavoro e (naturalmente) a causa della prossimità e dell’abbondanza di terre rare, ormai diventate vitali per pressoché ogni industria avanzata civile e militare. Il caso simbolo è quello della Mongolia Interiore, dove dal 2011 si è sviluppato un enorme distretto produttivo legato alle terre rare: Ne è simbolo l’immagine quasi surreale del Lago Baotou.
Questo enorme trasferimento di tecnologia e brevetti ha permesso alla Cina di muoversi lungo la catena produttiva, passando dalla sola estrazione di terre rare alla loro raffinazione (emblematico il caso della Rhone-Poulenc), poi alla loro trasformazione (Magnequench) per poi arrivare a poter produrre le proprie pale eoliche, le proprie auto elettriche, i propri ICBM e i propri caccia stealth. La Cina non è più – da tempo – un paese di minatori e operai non qualificati, le industrie ad alto valore aggiunto sono ormai in pieno sviluppo.
Questa conquista ha però causato anche dei problemi alla Cina. Le nuove industrie, infatti, non sono più soddisfatte dalla sola estrazione di terre rare cinesi, costringendo il PCC a muoversi per importarne dal resto del mondo.
E così arriviamo alla riapertura di Mountain Pass nel 2018: Non è l’unico caso in cui la Cina ha investito nell’estrazione di terre rare in paesi terzi o addirittura suoi avversari come gli USA, anzi, è difficile trovare un’operazione mineraria di questo tipo di cui lo Stato cinese non possegga una quota.
Al giorno d’oggi, infatti, la Cina non monopolizza più l’estrazione – come 10 anni fa – ma controlla il mercato. E’ in grado, grazie alle sue estese attività estrattive e grazie alla sua presenza dilagante nel settore, di manipolare i prezzi a seconda delle convenienze geopolitiche e mercantili del momento.
In sostanza, la riapertura di Mountain Pass, sebbene abbia indubbiamente alleviato un problema vitale per gli interessi geopolitici americani, non l’ha risolto. La Cina ha in mano, in questo momento, le sorti dell’intero sistema produttivo mondiale. Grazie al suo controllo del mercato delle terre rare. Non è un’esagerazione.
L’anglosfera ha venduto, ai suoi abitanti e ai suoi clientes (noi italiani, per esempio), un’idea di futuro in cui non si produce niente, in cui facciamo tutti di lavoro il blogger (mica male!) o l’insegnante di yoga e la roba ci viene spedita da un paese lontano, con magari anche un bel bollino verde che ne accerta la “sostenibilità”.
I nostri fiumi saranno puliti, i nostri cieli pure.
Ogni nostro desiderio arriverà luccicante sul pianerottolo, prodotto dai paesi “in via di sviluppo”, perché lo sviluppo funziona così: Noi che siamo sviluppati non possiamo più sporcarci le mani con la produzione, e i nostri (viziati) operai comunque vogliono essere pagati troppo! Non possiamo competere nel “libero mercato” con i bassi costi del lavoro cinese, è così, there is no alternative.
Così le nostre classi dirigenti ci hanno venduto il più grosso scacco matto geopolitico della storia. Con il sorriso sulle labbra e i giornalisti che scrivono in smartworking al pc per il New York Times mentre sorseggiano cappuccino, che e all’operaio licenziato suggeriscono sardonicamente: “Learn to code“.
Ma la realtà è un’altra: Le condizioni le detta chi produce, chi scava la terra, chi ha più missili e più carri armati, chi fornisce energia. Sarà, ed è stato, un durissimo risveglio per gli USA e per l’Europa occidentale.
WASHINGTON CONSENSUS O BEJING CONSENSUS
Consigli di lettura di Inimicizie
Quello tra gli USA e la Cina è uno scontro di civiltà.
Tra capitalismo e socialismo? Nì. I modelli americano e cinese differiscono in tante loro caratteristiche.
La differenza radicale tra le due società non è dovuta semplicemente alla nazionalizzazione o meno delle industrie, o all’esistenza o meno di un piano quinquennale (senza dubbio fattori importanti, anzi fondamentali, del vantaggio a lungo termine cinese).
La Cina è anche uno Stato che si sente nazione, e si sente nazione perché lo è. Il 92% della popolazione cinese è di etnia Han, e le altre minoranze etniche – in quanto esigue – godono di ottime condizioni e persino privilegi all’interno del sistema di potere del PCC, con quote di rappresentanza maggiorate rispetto al loro reale peso e maggiore autonomia amministrativa. Naturalmente escludendo quelle “bellicose” come uiguri e tibetani, che vengono invece ricondotte sotto l’ala del partito con altri mezzi, meno family friendly. Questa omogeneità etnica – unita ad una storia millenaria – fa dei cinesi un popolo altamente nazionalista (anche nelle nuove generazioni), desideroso di prendere il suo posto nel mondo e coordinato da un partito unico che gode ancora di grande popolarità, capace di elaborare strategie a lungo termine per incanalare le energie di un miliardo e mezzo di cinesi.

Non si può ovviamente dire lo stesso degli Stati Uniti, ormai poco più che un’area economica, un’unione doganale, in preda a svariate (e polarizzatissime) divisioni su più linee di faglie: Dalla razza (in inglese si usa proprio la parola race), alla religione, alle radicali differenze politiche. Un prodotto instabile delle migrazioni di massa, del ’68ismo e del liberalismo economico pronto ad esplodere.
Gli americani hanno già perso due guerre negli ultimi 50 anni a causa del fronte interno, quella del Vietnam e quella in Afghanistan. Riuscirebbero a vincerne una contro la Cina?
Certo, si potrebbe correttamente evidenziare come la politica estera di Biden – aldilà delle fanfare – sia molto simile a quella di Trump. E’ vero, ma non basta.
Una strategia efficace, ci insegna Clausewitz nel “Vom Kriege“, abbisogna di una decisa guida politica che fissi obiettivi realistici, di militari in grado di portarli a termine e di una popolazione mobilitata per il loro conseguimento. Sono caratteristiche che la Cina ha (salvo la seconda, messa alla prova poco e niente), e gli Stati Uniti non hanno (salvo la seconda, in determinati casi).
In Afghanistan si è palesata una totale assenza di strategia unitaria, sostituita invece da interessi e strategie particolaristici, privati, corporativi. Ne conseguì una grande confusione anche dal punto di vista militare.
La macchina del consenso americana non è più quella di una volta. I media e la classe politica sono usciti pesantemente screditati dagli ultimi vent’anni e le narrative elaborate non fanno più presa. Non abbastanza per sostenere 2500 morti in 20 anni in Afghanistan, quindi forse non abbastanza per sostenerne 10 volte tanti nel giro di un mese a Taiwan.
Gli Stati Uniti si trovano quindi con una guida politica incapace di elaborare strategie chiare e realistiche (carenza dovuta anche all’illusione che il balance of power non sia enormemente cambiato rispetto ai tempi della guerra fredda) e con una popolazione sempre più polarizzata e radicalizzata nelle proprie identità particolaristiche.





FORMOSA, BEL SUOL D’AMORE
Così intitolerebbe la sua canzone Gea della Garisenda se vivesse nella Cina contemporanea.
Per il PCC, la reconquista di Taiwan rappresenta quel che per noi italiani è stata la presa della Libia dall’Impero Ottomano, il coronamento del riscatto di una nazione precedentemente vessata e occupata da potenze straniere.
E’ un obiettivo che la Cina persegue senza esitazioni, e che è determinata a conseguire con ogni mezzo. Un obiettivo che, tra l’altro, inizia a diventare sempre più difficile da raggiungere con mezzi esclusivamente pacifici.
Il regime di Taiwan si è sviluppato in modo radicalmente diverso rispetto al resto della Cina e la popolazione, galvanizzata dalla lotta indipendentista di Hong Kong e dal rinnovato interesse americano per la competizione nel pacifico, tende sempre più ad affermare la sua indipendenza da Pechino (si noti la maggioranza parlamentare del partito indipendentista, ad oggi). L’indipendentismo taiwanese inizia ad essere anche sostenuto – in modo sempre più convinto – da assortite forze atlantiste in Europa, come sempre più realiste del Re. Stiamo parlando, ad esempio, della Lituania come Stato e della Lega in Italia come partito politico.
La PLAN (People’s Liberation Army Navy) sta costruendo nuove navi con un ritmo forsennato (portaerei incluse) aumentando velocemente le proprie capacità anfibie. Nuovi missili ipersonici antinave vengono collocati sulla costa cinese per minacciare le portaerei americane ed inglesi e nuovi caccia stealth vengono costruiti.
Un’invasione su larga scala di Taiwan diventa ogni giorno più fattibile, anche se non è detto che ci debba essere un’invasione militare regolare al 100%.
Più probabilmente, l’intervento militare sarebbe preceduto da una destabilizzazione irregolare. Un’incidente, una crisi, magari una false flag; verrebbero strumentalizzati per dare inizio alle operazioni. Manifestanti e partiti pro-Pechino scenderebbero in piazza in sostegno di un intervento. Ufficiali delle forze armate taiwanesi dichiarerebbero fedeltà al PCC. Media, ONG ed influencer finanziati da Pechino sosterrebbero narrative imbeccategli dal Partito. Operatori delle forze speciali cinesi, inseriti con largo anticipo, si muoverebbero per catturare siti strategici, mettere fuori uso infrastrutture informatiche e telefoniche, arrestare o assassinare figure chiave.
Lo scenario – anche se va detto, avverrebbe in un contesto molto meno favorevole rispetto a quello in cui si trovò la Russia -potrebbe somigliare al colpo di stato in Crimea con successiva annessione.
A quel punto, le forze armate regolari cinesi potrebbero muoversi in modo più agile per mettere al sicuro l’isola e portarla sotto il dominio del PCC.
Ad ogni modo, arriverà un momento in cui gli USA saranno messi davanti alla decisione se rispondere o meno.
Arriveranno tante belle parole e tanti bei gesti, come nel caso dell’Armenia del povero Pashinyan, beniamino della NATO appena laureatosi da una rivoluzione colorata, che ricevette molte lettere di sostegno e mozioni parlamentari mentre piovevano ordigni esplosivi azeri sui soldati armeni, questo è sicuro.
Per quanto riguarda un intervento militare diretto, o indiretto, rimane un grosso punto interrogativo.

QUALE FUTURO PER L’EUROPA
La competizione tra Cina e USA è destinata a continuare, non si fermerà alla sola Taiwan, e come già detto l’idea è che sia la Cina ad avere il coltello dalla parte del manico, sotto diversi punti di vista.
In ogni caso, quello che ci dobbiamo aspettare – salvo eventi clamorosi – non è un annichilimento degli USA da parte della Cina. Quello che ci dobbiamo aspettare è la nascita di un sistema veramente multipolare, dove sia USA che Cina (che altre grandi potenze) godranno della loro sfera d’influenza.
L’Europa, in questo nuovo processo, cadrà nella sfera d’influenza americana? O ne creerà una propria?
Gli interessi strategici dell’Europa occidentale-meridionale non corrispondono più (l’hanno mai fatto?) a quelli dell’anglosfera, che invece trova una sponda in quei paesi post-sovietici (e, in modo diverso, nella Turchia) che sono attivamente impegnati nella competizione con la Russia e con la sua sfera d’influenza. Questa tesi è ampiamente confermata dall’attacco contro il gasdotto nord stream, così come dalla deindustrializzazione tedesca ed italiana a scapito degli Stati Uniti durante la guerra in Ucraina.
Quello che l’Europa occidentale deve assolutamente evitare è la formazione di due blocchi, uno filoamericano (di cui farebbe parte giocoforza), l’altro sino-russo. Legarsi in questo modo ad un impero in decadenza porterebbe alla definitiva catastrofe dell’Europa, il “giardino europeo” diventerebbe una mera area di competizione strategica ed estrazione di ricchezza.
E’ necessario formare un terzo polo, europeo, in cu includere naturalmente anche la Russia (Sarebbe meglio concentrarsi sull’aspetto militare, con un’alleanza continentale contrapposta a quella atlantica, piuttosto che sulla moneta unica, le quote latte e i temi LGBT).
Questo blocco sarebbe dotato di importanti risorse naturali, terre rare comprese (di cui la Francia, la Russia, il Kazakhstan e la Mongolia dispongono in grandi quantità), risorse economiche, demografiche e militari, posizioni d’influenza importanti in Africa e controllo delle rotte commerciali attraverso il canale di Suez.
Non è un’idea campata per aria, e ci sono segnali, anche se ancora non fortissimi (indubbiamente l’Europa occidentale rimane ancora saldamente ancorata agli USA e alla NATO) soprattutto da parte tedesca.
Germania che, pur nella sua condotta quasi patetica, e impotente, da segnali di vita: Il viaggio di Scholz a Pechino, con i maggiori CEO tedeschi, è un forte segnale politico. Dopo la cessione del terminal container del Porto di Amburgo.
Cordon Sanitaire permettendo.

Bella analisi e bello scenario futuro, ma in italiano si dice Mongolia Interna e non Mongolia Interiore: Perché è la parte di Mongolia Interna alla Cina e non la parte dove fanno le riflessioni psicologiche + profonde
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Hai ragione! Grazie
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