Mentre scrivo questo pezzo, chiuso in una stanza in isolamento per covid 19, sul mio feed dedicato di twitter vedo scorrere immagini destinate a rimanere nella storia.
Leader talebani che entrano trionfali nel palazzo presidenziale dopo vent’anni di esilio, bandiere dell’emirato che vengono issate e tanto altro. La più iconica di tutte sarà sicuramente quella dell’elicottero militare Chinook in volo sopra l’ambasciata statunitense a Kabul, da cui si leva una nube di fumo nero prodotta dalla distruzione di materiali sensibili, bandiere ed effetti personali della legazione diplomatica; un’immagine che porta alla mente forti parallelisimi con l‘evacuazione dell’ambasciata di Saigon assediata dai nord-vietnamiti, il punto di culminazione di un fallimento geopolitico.
Non sono soltanto le immagini, però, che intasano la mia timeline, ad occuparla sono anche numerose riflessioni: Come è potuto succedere? E’ stata la cosa giusta andarsene? Quali saranno le conseguenze?
Proverò ad offrire anche una mia lettura, in continuità con quella precedentemente pubblicata da Enrico C su questo blog.

Il primo motivo del fallimento della campagna afghana è stata la mancanza – o meglio, la perdita – di un chiaro obiettivo politico e dei conseguenti mezzi militari per realizzarlo.
Quando nel 2001 Bush decise di invadere il paese, l’obiettivo (perlomeno quello dichiarato) era chiaro: Debellare Al Qaeda negandogli una base di operazioni in Afghanistan tramite un cambio di regime. Si trattava di un obiettivo facile da raggiungere per l’esercito più potente al mondo – supportato dalla totalità della comunità internazionale – e infatti fu raggiunto in breve tempo.
I problemi iniziano nel momento in cui si deve decidere cosa fare dopo: Lo scopo di questo articolo non è fare una cronologia della guerra, quindi non mi soffermerò su un riepilogo delle sue fasi. Chiediamoci invece una cosa: Perché la coalizione è restata in Afghanistan per vent’anni?
Il primo errore (che molti fanno) sarebbe cercare di dare una risposta univoca a questa domanda; poiché i vari attori in gioco avevano ognuno i loro motivi per fare pressione affinché i militari rimanessero: Gli strateghi americani sicuramente desideravano mantenere un’ampia presenza militare tra Cina, Iran e Russia, la CIA otteneva fondi neri tramite la vendita di oppio, il complesso militare-industriale ammassava ogni anno enormi profitti, i think-tank e i politici neocon/neolib sicuramente volevano la “democratizzazione” dell’Afghanistan per motivi ideologici ed economici.
Tutte queste ragioni sono valide, ma è stata proprio la loro molteplicità a rendere impossibile la formulazione e l’esecuzione di una strategia coerente (delle ragioni degli altri membri NATO – Regno Unito, a cui inizialmente viene dato il comando della coalizione, escluso – non vale neanche la pena parlare: Eravamo li perché lo volevano gli USA). Il problema – in ogni caso – non è neanche necessariamente questo.
Mettiamo caso che questo coacervo di obiettivi – salvo l’ultimo – potessero essere soddisfatti mantenendo ad oltranza lo status quo.
Per aiutarci a capire la resa di ISAF, chiamiamo in aiuto due grandi maestri: Carl von Clausewitz e Carl Schmitt.

GUERRA ASSOLUTA E GUERRA REALE
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Quando un non addetto ai lavori pensa alla guerra tra due forze, si immagina quella che Clausewitz – nella sua opera omnia – descrive come guerra assoluta o guerra teorica, ovvero lo scontro aperto con tutti i mezzi disponibili fino alla completa sconfitta di uno dei due combattenti, con la conseguente imposizione della volontà del vincitore.
La guerra reale, però, è ben diversa: Essa è limitata dagli “attriti”, che possono essere sia di natura materiale che – soprattutto – di natura politica. Per dirla in modo più semplice: I mezzi e i sacrifici che una parte in guerra è disposta ad impiegare sono sempre relativi all’importanza dell’obiettivo che si vuole raggiungere, e limitati dalle condizioni materiali e politiche della sua nazione.
Traslando la teoria nel caso in esame: Quella che per gli americani era una guerra lontana combattuta con obiettivi poco chiari e per molti non condivisibili, per i talebani era una jihad, una guerra santa contro un’invasore, una causa per cui era possibile sacrificare tutto.
L’offensiva del Tet del 1968, considerata uno dei “colpi di grazia” agli americani durante la guerra del vietnam, fu una disfatta dal punto di vista militare per le forze comuniste, ma la perdita di altri 4000 ragazzi in un momento in cui si credeva che la guerra fosse al termine – per gli americani – fu considerata inaccettabile, mentre per i nordvietnamiti la perdita di 50.000 soldati non era che uno dei tanti sacrifici necessari per liberare il proprio paese.
Ecco come hanno vinto i talebani. Con una lunga offensiva del Tet che ha stroncato il morale americano; anche i numeri sono simili: 2500 americani morti per 68mila talebani, secondo wikipedia.
Inoltre, l’avversione da parte americana a subire perdite umane (dovuta anche alla natura dell’obiettivo) ha portato allo sviluppo e all’uso frequente di armi estremamente costose (un missile Hellfire costa 100k dollari e non sempre va a segno, neanche contro un combattente singolo) che – unite ad una coda logistica estremamente costosa da mantenere a causa della scarsità di infrastruttura nel paese e della frequente chiusura della strada pakistana – che costringeva a far passare i rifornimenti dall’asia centrale, trasportandoli via nave nei paesi baltici o nel caucaso, hanno fatto lievitare il costo della guerra a 2 trillioni nel corso di vent’anni. Un costo che la classe media americana, sempre più in crisi dopo 2008 e covid, non era veramente più disposta a sostenere.

LA TEORIA DEL PARTIGIANO
Nella sua “teoria del partigiano“, Carl Schmitt evidenzia quali sono i fattori che caratterizzano il partigiano.
Due vengono subito a mente quando si pensa al talebano, molto vicino all’archetipo del partigiano schmittiano: Il fattore tellurico e il fattore temporale.
Il talebano – dotato di armi da fanteria e poco più – ha tenuto testa all’esercito americano perché combatteva sul suo terreno. Non tanto perché lo conosce (oggi con la ricognizione aerea si può in larga parte ovviare a questo problema), ma perché lo vive.
Nel documentario “Restrepo”, girato nella valle del Korengal – da cui gli USA si sono ritirati ben prima del 2021 – le truppe americane parlano con gli anziani del villaggio, consegnano denaro, stringono mani, regalano medicine e acqua potabile. Poi – quando escono dal villaggio – cadono trappola di un’imboscata da più direzioni. Probabilmente a sparare ci sono gli abitanti del villaggio, a cui pochi minuti prima i militari americani hanno stretto la mano.
Il talebano, in quanto partigiano, fa parte della propria comunità. Il soldato americano in divisa no. Questa asimmetria ha permesso all’insurrezione di andare avanti per vent’anni fino alla vittoria.
Appunto, vent’anni. Questo ci porta al secondo fattore: Il tempo.
E’ proprio il tempo – secondo il giurista di Plattenberg – un altro fattore che gioca a favore dei partigiani se, come nel caso delle guerriglie maoiste in Cina e in Vietnam che egli ha studiato, il lavoro politico che viene condotto in parallelo a quello militare prende piede presso la popolazione. E nel caso di un’occupazione straniera tende quasi sempre a farlo, a prescindere dai meriti o meno dell’amministrazione collaborazionista: L’intervento americano godeva di grande popolarità tra gli afghani nel 2001; popolarità che è andata poi in crescente discesa nei 20 anni successivi.
Gli americani pensavano di star conquistando gli “hearts and minds” della popolazione afghana, in realtà avevano soltanto ottenuto la loro (finta) collaborazione in cambio di denaro. Nel momento in cui il vento è cambiato, e gli americani hanno iniziato la loro dipartita; i capi tribali, i signori della guerra, i notabili locali e vasti settori dell’esercito si sono uniti ai talebani come prevedevano di fare non appena possibile.
E così, con perseveranza, continuando a vivere nella propria comunità e combattendo ad oltranza, i talebani si sono liberati degli americani come i mujaheddin si erano liberati dei sovietici (e no, le due categorie non sono del tutto sovrapponibili). USA sconfitti dalla loro inferiore volontà: Carl Schmitt non ne sarebbe stato sorpreso.

E ORA?
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E ora, come cambierà la posizione americana nel mondo? Come cambierà la dottrina militare statunitense?
Forse è troppo presto per dire se vedremo un ritorno totale alla dottrina Powell-Weinberger, ovvero la dottrina formulata dopo la guerra del Vietnam che prevede un intervento rapido e con mezzi sproporzionati – che ha portato al successo di operazioni come l’intervento a Grenada, Panama, ma soprattutto Desert Storm – in sostituzione dei tentativi di national building ed occupazione ad oltranza; nel perseguimento degli interessi americani.
Sicuramente, vedere gli americani ritirarsi dall’Afghanistan, in un contesto internazionale in cui non hanno rivali paragonabili all’Unione Sovietica, deve far ricredere coloro che ancora pensano ad un mondo in cui gli USA sono la potenza egemone: Quel mondo non esiste più, è esistito negli anni ’90 e poco dopo, ma la sua fine è gia giunta da un pezzo, il “momento Kabul” può essere solamente considerato la sua fine simbolica.
L’unica cosa che ci si può augurare seriamente è che sia passata la voglia di “democratizzare” manu militari società completamente diverse dalla nostra, di occupare paesi stranieri per decenni facendoci odiare da intere parti del mondo, di mandare a morire dei ragazzi per scrivere articoli sul primo corso di “gender studies” aperto a Kabul.
Il vero motivo, poi, non è mai stato quello, ma in molti ci hanno creduto, e tanto basta.
finto mattonista. manca solo sun zu o come si scrive.
la retorica dei “nostri ragazzi” è vomitevole.
amico, i c.d. nostri ragazzi venivano pagati 10/12.000 euro al mese nel 2002AD, parola di colonnello EI.
sapevano che ciò che stavano facendo era sbagliato, che si trattava di genocidio (i numeri di wikipedia sono ovviamente una farsa: solo nell’ultimo bombardamento con B52 hanno trucidato 400 mujahids in un colpo solo; i quali, in quanto partigiani, sono da considerarsi CIVILI, proprio come si fa con i partigiani ww2), sapevano che il 9-11 come attentato non stava in piedi, sapevano tutto, soprattutto dalla loro posizione privilegiata.
col senno del poi è ovvio chela ragione della guerra consisteva nella SOLA imposizione del FEMMINISMO, diventato parte integrante dei piani dell’elite mondialista già da diverse decadi, a longitudini di terre islamiche. in occidente bastava mettere le cattive maestre a sQola (viva la dad!) e nei college, e trasmettere tv shows che propagandassero i disvalori matriarcali d’occidente, ma da loro non sarebbe mai stato sufficiente. era necessaria la forza, e niente di meglio che partire dal paese più antifemminista del mondo. e su questo argomento mi fermo, anche se ci si potrebbe scrivere un trattato in multivolumi.
ciò che mi fa male è vedere il popolo del muh10-100-1000-nassiria, del no-alla-guerra-seza-se-e-senza-ma e del fuck-usa+fuck-bush, lo stesso con cui scesi in piazza da ragazzino, essere doventato il partito della guerra, senza se e senza ma, quandoi si tratta di implementare il femminismo che loro ritengono essere un diritto umano, mentre invece và contro il diritto naturale.
ridicolo che tra loro ci sia gente che nel 2014 ISIS time, e poi nel periodo del govenro gialloverde, volevano il ritiro immediato.
infatti per questa gente di merda, vero cancro dell’umanità, sarebbe stato utile andare avanti altri 20 anni e più.
questo articolo è pure BS.
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Mi prendi per il culo? Per un mese e mezzo non hai pubblicato un cazzo e poi, dopo aver aggiunto altri mille articoli, pubblichi quando non c’è più visibilità?
Ti da così fastidio che coi fatti ho azzerato le tue seghe mentali?
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Ahahahah tutto bene?
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