Il 2022 è stato sicuramente l’anno più turbolento mai vissuto dalla generazione di chi – come chi vi scrive – è nato dopo la fine della guerra fredda, coronamento (o meglio, prosecuzione) di una grande crisi globale iniziata nel 2020, spesso dai contorni poco definiti.
Il 2022 è stato l’anno della consacrazione della morte dell’ordine successivo alla guerra fredda, quello dell’unipolarismo americano. Un ordine che era in realtà già morto dopo la crisi finanziaria del 2008: Serviva un’altra crisi per “scoprire” il cadavere; non già della potenza americana, ancora viva e vegeta se non addirittura rinvigorita, ma di un ordine mondiale imperniato su di essa soltanto.
Il lungo periodo di transizione iniziato nel 2007 non è ancora finito, e non è ancora finita neanche la lunga crisi iniziata nel 2020: Il “nuovo ordine mondiale” è ancora in fase di gestazione. Le sue future caratteristiche diventeranno più chiare nel 2023, anno su cui ci apprestiamo a fare qualche osservazione e previsione, più per svago che per qualsivoglia utilità.
LA GUERRA IN UCRAINA
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Pur mostrando segnali di stallo, la guerra in Ucraina continua.
Mentre scrivo queste righe, le forze armate russe (o il gruppo Wagner, che dir si voglia) hanno occupato la città mineraria di Soledar, minacciando la roccaforte ucraina di Seversk e facendo deteriorare ulteriormente la posizione ucraina a Bakhmut, dove si combatte da mesi e che sembra a sua volta in procinto di essere occupata dalle FAR. E’ la prima seria avanzata russa da dopo la ritirata dalla riva destra del Nipro e il cambio di strategia imposto dal nuovo comandante dell’OMS – Sergey Surovikin, ora subordinato a Valery Gerasimov – improntata a fortificare linee difensive “razionali” e colpire le retrovie ucraine (in particolare le infrastrutture energetiche e ferroviarie) con attacchi missilistici e tramite droni, per frenare l’offensiva ucraina.
E’ un fatto che ci limitiamo a constatare (insieme alla speculare fornitura di carri armati ed armi sempre più avanzate all’Ucraina, che sembra concretizzarsi in questi giorni) senza che si traduca in una previsione sull’esito delle operazioni militari nel paese, che sono ancora lungi dall’essere decise. Troppe sono le dinamiche militari e politiche che lo influenzano, per poter fare previsioni con sicurezza.
Una totale sconfitta russa, così come una totale sconfitta ucraina, nel conflitto per procura ora diventato d’attrito, sono ancora possibilità concrete.
Un’opzione mediana è invece quella di uno stallo militare e di un congelamento di fatto del conflitto, da raggiungersi o nel 2023 o addirittura più avanti. Corredata da altri scenari di vittoria soft di una delle due parti.
In effetti, salvo l’avvento dei due casi estremi sopracitati (balcanizzazione/collasso di Russia o Ucraina) e forse anche se si avverassero quei casi, ad interessarci maggiormente sono gli effetti già prodotti dalla guerra in Ucraina, che riguardano i due protagonisti indiscussi della grande geopolitica del 2023: USA e Cina.
Entrambe queste potenze hanno già vinto la guerra, consolidando la propria influenza rispettivamente su Europa Occidentale e Russia/Asia Centrale ponendosi come patrono (nel primo caso militare, nel secondo economico) dei due paesi in guerra. Queste due potenze cercheranno di stabilizzare i vantaggi ricevuti dalla guerra, e di renderli permanenti.
LA COMPETIZIONE SINO-AMERICANA E L’EUROPA OCCIDENTALE
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Con ogni probabilità, il 2023 vedrà crescere la competizione sino-americana, sia nella retorica che nei fatti. L’amministrazione Biden, ad ottobre 2022, ha dichiarato “guerra tecnologica” alla Cina varando blocchi all’export di microchip di nuova generazione, anche attraverso le sanzioni a paesi terzi. Questa guerra tecnologica si espanderà, sia tramite pressione americana su alleati come Olanda, Giappone e Corea del Sud affinché cooperino al massimo in questa iniziativa, sia tramite l’eventuale espansione ad altri settori tecnologicamente avanzati come le biotecnologie, l’intelligenza artificiale.
Non va dimenticato come il primato tecnologico sia da sempre uno dei – se non il principale – motore della superpotenza americana, e che in ultima istanza la guerra fredda fu anche una competizione tecnologica – non solo in ambito nucleare – che negli anni 80′ fu dominata dagli americani a tal punto da portare l’economia sovietica verso un punto di rottura. Gli USA cercheranno di ripetere questa strategia.
Dal canto suo, la Cina farà il possibile sia per (nel medio termine) sviluppare capacità domestiche, sia per (nel breve termine) ridurre il raggio della coalizione filo-americana impegnata nell’embargo, cercando il favore (o almeno la non belligeranza) di europei, coreani e giapponesi.
In quest’ultimo obiettivo potrebbe avere vita facile: L’eliminazione della Russia come fonte di sviluppo economico per l’Europa e le misure predatorie/protezionistiche dell’amministrazione Biden (inflation reduction act) hanno reso il ruolo economico della Cina nel vecchio continente ancora più importante di quanto non lo fosse prima.
Per la Cina il 2023 non sarà ancora – probabilmente – l’anno di Taiwan. Sarà l’anno della riapertura, con tutto lo stress sull’approvvigionamento di materie prime che la vorace economia cinese in ripartenza porterà nell’economia mondiale, e del rilancio (+ messa in sicurezza) della nuova via della seta.
FAR SALTARE I PONTI
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Il viaggio della speranza di Scholz a Pechino, con al seguito un codazzo di CEO delle principali compagnie tedesche (seguito da uno analogo di Charles Michel) è sinonimo di questa tendenza. L’Europa vorrà tenersi stretta la Cina come partner economico in un anno in cui inflazione e tassi di interesse continueranno ad essere alti rispetto al 2021, e in cui riempire le riserve energetiche per l’inverno sarà ancora più costoso che nel 2022, con prevedibili conseguenze sulle famiglie e le industrie del continente.
Questo naturalmente è contrario alle priorità geopolitiche dell’anglosfera, che invece cercherà di avviare un decoupling tra Europa e Cina, sia per le sopracitate ragioni di sviluppo tecnologico ed economico, sia nell’ottica di isolare la Cina dai suoi mercati di riferimento, tagliandole la “linfa vitale” in una futura guerra (direttamente combattuta o per procura) per Taiwan o per il Mar Cinese Meridionale.
In questa cornice, che è la versione ingrandita – e più importante – del rapporto tra Europa Occidentale, Russia e USA precedente al 2022, la “nuova via della seta” rappresenta un grande Nord Stream, un legame fisico (più protetto, anche se quantitativamente secondario, rispetto alle navi portacontainer che fanno al spola tra Shangai e Amburgo, preda facile in tempo di guerra) che va sabotato, rallentato, ostacolato, eliminato con ogni mezzo necessario.
Solo il 5% dei flussi ferroviari passa dal “middle corridor“, il lento e laborioso percorso (sponsorizzato da Washington) che bypassa la Russia attraverso il Mar Caspio. Il 95% attraversa ancora la Russia per congiungere Europa e Cina. Il rafforzamento (politico, se non anche fisico) della nuova cortina di ferro in Europa proseguirà nel 2023, pur essendo un ban al trasporto su rotaia via Russia irrealistico, almeno fino alla prossima grande crisi tra USA e Cina. Ancora più importante è il Kazakistan, tappa quasi obbligata di ogni viaggio della via della seta, e l’Asia Centrale in generale: Gli europei lo sanno, come evidenziato dalla “bandierina” di Macron in Kazakistan e dalla stretta collaborazione tra questo paese e l’UE; da leggere sì anche in chiave antirussa, ma anche (e soprattutto) come messa in sicurezza di un vitale legame commerciale con la Cina, una presa di posizione che evidenzia la spaccatura tra Francia e AUKUS in Asia, ascesa alla ribalta in occasione dell’accordo sui sottomarini nucleari.
L’Asia Centrale sarà centrale nel 2023, e le crisi che la piccola geopolitica offrirà vedranno un’intensa attività di Cina, Russia, USA e UE volta ad avanzare i rispettivi obiettivi strategici. Questa zona del mondo è di fatto quasi un condominio sino-russo (nonostante l’indipendenza reale di attori come il Kazakistan) dove l’influenza di Washington giunge difficilmente, ma può puntare a destabilizzare sfruttando conflitti già esistenti che, citando Brzezinski: “sarebbero debilitanti per i protagonisti, ma non per i vitali interessi americani“.
Brzezinski che ci viene in aiuto anche per quanto riguarda un secondo pilastro della strategia USA in Asia Centrale: Rompere, per l’appunto, questo condominio filo-russo. In quest’ottica il Caucaso – Azerbaijan e Georgia in particolare – sarà fondamentale, per permettere ai paesi dell’Asia Centrale di esportare i propri idrocarburi (tramite la pipeline Baku-Tblisi-Ceyhan, costruita con fondi di UE e Banda Mondiale) aggirando la sfera d’influenza russa. Per questo motivo l’apparente supporto USA all’Armenia nel conflitto con l’Azerbaijan è da ritenersi solo un tatticismo del momento, e una soluzione mediata da Turchia e Russia al conflitto del Nagorno-Karabakh, così come in Siria, non sarà vista di buon occhio.
TERREMOTO ECONOMICO
Il secondo grande tema del 2023, di pari importanza rispetto al “grande gioco” lungo la via della seta, sarà il – già iniziato – terremoto economico destinato a cambiare per sempre il volto degli scambi internazionali e del sistema valutario mondiale.
Due paper del direttore degli investimenti di Credit Suisse – Zoltan Pozsar – che gli iscritti alla newsletter di inimicizie hanno ricevuto in questa email, spiegano quanto avverrà molto meglio di quanto potremmo mai fare su queste pagine.
In breve: Washington negli ultimi anni, prima con Iran, Afghanistan e Venezuela, poi su scala maggiore con la Russia, ha inaugurato una weaponization del dollaro senza precedenti, che ha destato preoccupazione in molte (talune anche insospettabili, per via dei loro stretti rapporti con gli USA) capitali, e accelerato la dedollarizzazione che già procedeva, lenta ma inesorabile, dalla crisi finanziaria del 2008.
In un paper su Italia Strategic Governance, in uscita a febbraio, saranno riassunte tutte le iniziative in questo senso, precedenti e successive allo scoppio delle ostilità in Ucraina.
Alcuni aspetti di questa dedollarizzazione – come i BRICS e la loro espansione, gli accordi valutari bilaterali e regionali – ci sono chiari, altri – come le Central Bank Digital Currencies o un nuovo “gold standard” basato sulle commodities – possiamo oggi solo intravederli. Nel 2023 queste iniziative proseguiranno speditamente, offrendoci maggiori lumi sulla “Bretton Woods III” in gestazione.
La gravosa situazione economica globale che si è creata nel 2021 e 2022 continuerà inoltre a mietere vittime, e in questo senso i casi di Sri Lanka e Libano si devono ritenere come solo l’inizio di un processo più ampio, se l’Economist assume nuovi scrittori esperti in “crisi del debito” in paesi “medio poveri“, per prepararsi all’anno che verrà. Fare previsioni, soprattutto per chi non è un economista, è difficile, ma situazioni critiche preesistenti, in Nord Africa, nel Sud Est Asiatico e – chi lo sa – anche nell’Eurozona, andranno tenute d’occhio nel 2023.
Osserviamo l’esempio di Libano e Sri Lanka: Le grandi e medie potenze sgomiteranno per offrire le proprie linee di credito o le proprie risorse ai paesi in crisi, nella speranza di guadagnare influenza. O le proprie armi e i propri servizi di intelligence, in caso di disordini e guerre civili.
In conclusione – per tornare in una prospettiva prettamente italiana – il nostro sguardo nel 2023 deve andare prevalentemente a una regione: Il Nord Africa. In questa regione, in particolare, a 3 paesi: Libia, Algeria ed Egitto. Da questi due paesi dipende l’ultima parvenza di sicurezza/indipendenza energetica dell’Italia, e ulteriori crisi sono da prendere in considerazione alla luce della loro instabilità politica latente, della non-autosufficienza alimentare, da tassi di interesse alti oltreché dal possibile interesse di potenze straniere affinché degenerino.
3 pensieri riguardo “Uno sguardo al 2023”