Maggio sarà un mese turbolento nel Mar Egeo.
Su entrambe le sponde – Grecia e Turchia – si terranno le elezioni politiche, entrambe elezioni che rischiano di creare terremoti e che avvengono in climi molto particolari, soprattutto in Turchia.
Partiamo però dalla Grecia.
Ad Atene, il governo di centrodestra di Mitsotakis rischia di essere spodestato dalle varie “sinistre”, per ora separate ma in grado di stringere accordi dopo il voto: il PASOK, (partito socialista fondato dall’ex premier Papandreu, il KKE – unico partito comunista rimasto rilevante dalla nostra parte della cortina – Diem25 – partito dell’ex ministro delle finanze Varoufakis – e Syriza, il partito di Tsipras che ha prima combattuto contro le proposte di bailout di UE e FMI, per poi capitolare a condizioni ancora più dure tradendo l’esito dell’apposito referendum del 2015. Partito che è rimasto al governo fino al 2019, quando nuove elezioni hanno portato al potere il centrodestra.
Perché le elezioni politiche – che si terranno il 21 maggio – nella piccola Grecia ci interessano?
TENTAZIONI GRECHE
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Ricordiamo gli eventi che causarono il clamoroso dietrofront di Tsipras, pochi giorni dopo aver fatto campagna elettorale per il no al referendum sul bailout del 2015.
I contatti tra l’allora ministro delle finanze Varoufakis – raccontati nel suo libro – e l’ambasciatore della Repubblica Popolare Cinese in Grecia, in occasione dei quali la Cina si impegna ad acquistare bond greci ed offre massicci investimenti nel paese, in cambio dell’adesione greca alla Nuova Via della Seta. L’incontro tra Tsipras e Putin nei primissimi giorni di vita del governo, in occasione del quale i due paesi si impegnano ad espandere la cooperazione commerciale ed industriale.
In un contesto in cui la Grecia si avvia ad un duro scontro diplomatico con i creditori, questi segnali destano anche le ovvie preoccupazioni geopolitiche. Il messaggio di Victoria Nuland – attiva in prima linea in ogni dossier europeo per Washington, dal Maidan a Nord Stream – a Tsipras durante una visita a marzo 2015 comprende due chiare richieste: non opporsi alle sanzioni UE contro la Federazione Russa – cosa che il governo stava pensando di fare, viste le difficoltà economiche – e raggiungere un accordo con i creditori.
Con il referendum – chiamato a sorpresa a giugno – le preoccupazioni raggiungono il livello di guardia. Una Grecia che dovesse uscire dall’Euro – o peggio ancora dall’Unione Europea – dovrebbe giocoforza ampliare pesantemente le sue relazioni commerciali con la Cina – unica potenza con la capienza economica per salvare Atene da una crisi disastrosa – e con Mosca, con cui sono forti i legami energetici, che in particolare sono vitali per la marina mercantile greca – la più grande in Europa, e il secondo settore economico per peso sul PIL del paese – tutt’ora impegnata a pieno regime nel “riciclaggio” di petrolio russo sanzionato.
La Russia è anche un alleato necessario – tanto da farlo ricordare dal governo ai vescovi greci in procinto di riconoscere l’autocefalia della chiesa ortodossa ucraina – per bilanciare la Turchia, nell’Egeo e a Cipro.
Atene acquista i sistemi di difesa antiaerei russi S-300 nel 1999, sistemi che – dislocati sull’isola di Creta – ancora si rifiuta di cedere all’Ucraina (nonostante il governo di Mitsotakis abbia inviato ogni altra scorta militare disponibile) per non sguarnire lo spazio aereo greco, in cui regolarmente la Turchia effettua incursioni, sopra quel mare altamente contestato che è l’Egeo, riguardo al quale Erdogan ha dichiarato “possiamo arrivare all’improvviso, di notte“. Si inizia a parlare di visite della marina russa nei porti greci, visite che in effetti avvengono fino al 2021. Sempre nel 2015 Putin si incontra con il premier greco-cipriota Anastasiades, con cui concorda un maggiore accesso per la marina russa nei porti ciprioti.

TENERE I GRECI DENTRO
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Per mantenere la Grecia nell'”Antieuropa” – l’Unione Europea forte abbastanza per mantenere tutti i paesi membri all’interno del binario atlantico, ma non forte abbastanza per creare un’autonomia strategica europea – si mobilita l’asse Merkel – Obama: la prima combatte contro i “falchi” tedeschi all’interno del suo partito, ad un grave costo per la sua tenuta politica (un costo che non si rifiuta mai di pagare, quando l’allineamento con Washington diventa necessario) il secondo rilascia dichiarazioni a favore di un bailout più “morbido”, linea che viene seguita nei negoziati dal Fondo Monetario Internazionale, creditore della Grecia che di fatto si muove su indicazione di Washington.
Insomma, la questione del bailout greco riguarda più la stabilità geopolitica di quella economica. Così afferma Robert Kaplan dell’Accademia Navale Statunitense in un rabbioso editoriale sul Wall Street Journal alla vigilia del referendum, in cui la Grecia viene caratterizzata come un paese bizantino e primitivo, pronto a cedere alle sirene del “no”. Secondo Kaplan, il ruolo greco di “ancora” americana alle porte del Bosforo e del Mediterraneo deve essere preservato, e il modo migliore per farlo è mantenere il paese ellenico all’interno dell’Unione Europea che “per quanto siano frustranti le sue politiche, rappresenta il maggior trionfo della potenza americana, uscita vittoriosa dal massacro della seconda guerra mondiale“. “La Grecia” conclude l’Autore “che sia con l’Euro o con la Dracma, ha bisogno di nation building“.
E nation building riceverà, con un piano di bailout che ad oggi non ha permesso al paese di superare il suo PIL reale del 2000, e che ancora non ha risolto il problema del debito, rimanendo a grosso rischio in un anno di tassi di interesse in aumento, di inflazione, di crisi bancaria ed energetica, che ha già portato al collasso politico-economico alcuni paesi in via di sviluppo, e sull’orlo del baratro molti altri.
Un bailout accettato da uno Tsipras impallidito dopo il referendum, che confesserà al suo ministro delle finanze di aver ricevuto notizia di un disegno di colpo di stato, di una minaccia alla propria vita. E sarebbe una possibilità così remota? Non in Grecia, un paese uscito da una giunta militare “solo” nel 1974, dove il tasso di violenza politica è ancora alto rispetto all’Europa occidentale, con gruppi di estrema sinistra che regolarmente attaccano le forze dell’ordine e le istituzioni con pacchi bomba e armi da fuoco. Un paese dove l’instabilità politica e la crisi costituzionale sono sempre dietro l’angolo, dove la corte costituzionale mette al bando partiti politici con quasi il 10% delle preferenze e il governo viene scoperto a spiare (e probabilmente ricattare) politici e giornalisti.
Dunque, il ritorno al potere in qualche misura della “sinistra” – nonostante uno Tsipras del tutto “normalizzato” – in un anno in cui nuovamente la Grecia rischierà di trovarsi in condizione di compiere difficili scelte economiche, e in cui i rapporti tra UE, Grecia e Russia continueranno naturalmente ad essere una questione di primo piano – insieme a quelli con la Cina, presente con forza nel porto del Pireo – è una prospettiva destinata a creare non poche tensioni.

SPARTIACQUE TURCO
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Dall’altra parte dell’Egeo, le elezioni in Turchia del 14 maggio si prefigurano un vero e proprio spartiacque per il paese. A 20 anni dall’ascesa al potere di Erdogan e del suo AKP, una variegata coalizione di 6 partiti si unisce dietro a Kemal Kiligdaroglu, minacciando di mettere fine al “ventennio erdoganiano”. Per capire quale sia la posta geopolitica in palio, occorre ripercorrere brevemente l’origine e l’evoluzione dell’AKP come principale forza politica turca.
Durante la guerra fredda, la Turchia – paese NATO dal ’52, ma già alleato statunitense – si alternano governi civili di stampo kemalista – nel solco dell’ideologia tracciata da Ataturk, padre della Turchia moderna – e momenti di governo militare. L’esercito, intriso di ideologia kemalista (una sorta di nazionalismo secolare, tendente all’ateismo militante) di tanto in tanto interviene per “raddrizzare” il corso della politica turca – o stabilizzarla in momenti di crisi – per poi riconsegnare il potere ai civili. Uno stato delle cose che rimane pressoché invariato fino agli anni ’90.
L’ascesa dell’islam politico – significativo a partire circa dagli anni ’80 – sia per motivi di natura culturale/religiosa, sia per il fallimento del progetto panarabo, sia per per necessità geopolitiche saudite ed americane investe anche la Turchia, un paese musulmano che ha però vissuto un lungo periodo di secolarismo kemalista. La fine della guerra fredda fa il resto, e negli anni ’90 il panorama politico si apre a nuove possibilità prima del tutto inedite in tutto il Dar al-Islam: in Algeria si apre una sanguinosa guerra civile tra il Fronte Islamico di Salvezza e il vecchio establishment militare del socialismo arabo, in Pakistan i governi civili successivi alla dittatura di Zia ul-Haq proseguono sulla scia dell’islamizzazione istituzionale del paese e sostengono la presa talebana dell’Afghanistan, persino Saddam Hussein – interpretando sapientemente lo zeitgeist – gradualmente muta le connotazioni ideologiche del regime avvicinandole all’integralismo sunnita, che formerà il sostrato per i movimenti terroristi successivi alla sua dipartita.
In Turchia, dopo un periodo di assestamento (il secolarismo era uno dei pilastri dello stato, e i militari se ne dichiaravano ancora i guardiani con il “golpe postmoderno” del 1997) finalmente l’argine si rompe, e nel 2003 viene permesso ad un partito legato all’islam politico – l’AKP di Erdogan – di partecipare alle elezioni, vincendo.
Va da se che – con un cambio così radicale di paradigma – il governo “islamista” di Erdogan sia stato mal digerito dallo “stato profondo” turco, dalle forze armate ancora legate al kemalismo così come dalla burocrazia. Nonostante ciò, Erdogan continua a vincere le elezioni.
Arriviamo dunque al tentativo di colpo di stato del 2016.

IL GOLPE “GULENISTA” DEL 2016
Il 15 luglio 2016, dei reparti delle forze armate turche occupano punti strategici di Ankara ed Istanbul, danno la caccia ad Erdogan che riesce a fuggire da uno resort nella città costiera di Marmaris. Il golpe fallisce a causa di un’adesione limitata da parte dell’esercito, ma anche grazie all’opposizione di folle oceaniche chiamate in soccorso da Erdogan – fatto che rivela la sua popolarità nel paese – e dalla resistenza di forze di polizia e militari che rimangono fedeli al governo in carica.
Differentemente da quello che ci si potrebbe aspettare – a cose fatte – le accuse del governo turco non ricadono sui settori più radicalmente kemalisti dell’esercito (ritenuti collegati alla trama, ma purgati già nel 2013 con l’Operazione Ergenkon, un’altra ipotesi golpista sventata) bensì su un altra branca dell’islam politico, il movimento Hizmet guidato dal chierico in esilio Fetullah Gulen. E’ proprio dalla figura di Gulen, alla guida di un movimento politico-religioso molto influente in Turchia (prima del 2016) che possiamo partire per capire gli allineamenti geopolitici che circondano il tentativo di golpe, e che oggi – amplificati – permangono intorno alla tesissima elezione che la Turchia sta per affrontare.
Gulen infatti – che inizialmente si muove di concerto con Erdogan, nelle prime fasi di emersione dell’islam politico nel panorama politico turco – risiede dal 1999 negli Stati Uniti, con una green card, peraltro, ottenuta grazie alla fondamentale sponsorizzazione di due ex operativi dell’intelligence americana: Morton Abramowitz (poi direttore del National Endownment for Democracy) e Graham Fuller (in seguito membro della Rand Corporation e docente universitario) quest’ultimo direttamente implicato nel colpo di stato da un pubblico ministero turco, che emette nei suoi confronti un mandato di cattura. Dai ranghi dell’AKP e dagli ambienti ad esso contigui piovono diverse accuse nei confronti degli Stati Uniti, ritenuti o favorevoli, o persino artefici della trama ai danni di Erdogan.
E gli elementi circostanziali di certo non mancano: basti pensare che uno dei centri operativi del golpe fu la base turco/americana di Incirlik – che gli Stati Uniti utilizzano come base di operazioni in Siria, ma anche come sede di armi nucleari tattiche – il cui comandante turco verrà arrestato e dismesso, individuato come uno dei leader del golpe. A seguito delle purghe nell’esercito e nel pubblico impiego – successive al golpe – il Generale americano Joseph Votel – a capo del Central Command, l’area di operazioni che include il Vicino Oriente – e James Clapper, a capo del National Intelligence Directorate – il corpo di coordinamento delle varie agenzie di intelligence americane – muoveranno pesanti critiche contro Ankara, accusando il governo di star eliminando preziose risorse e uomini di fiducia di Washington (nella lotta al terrorismo).
Gli Stati Uniti si rifiutano, tutt’ora, di estradare Fetullah Gulen in Turchia.
Henri Barkey – anch’esso operativo CIA oltre ad essere professore universitario, membro del Council of Foreign Relations e del centro Woodrow Wilson – verrà colpito con un un altro mandato di cattura.
D’altro canto, è proprio dagli Stati Uniti che origina la teoria dell'”autogolpe” (chi abbia ragione, ai fini della nostra analisi, di fatto è quasi irrilevante) perpetrato da Erdogan per consolidare il proprio potere domestico: elaborata inizialmente da Michael Rubin – che curiosamente pochi giorni prima del golpe “prevedeva” proprio la possibilità di una vera ribellione dell’esercito turco sulle pagine del suo American Enterprise Institute – e poi circolata sui maggiori organi d’informazione, come il New York Times e come Politico EU, la neonata joint venture tra l’editoria americana e la tedesca Axel Springer, che acquisterà l’intera testata nel 2021.
E’ infatti la Germania – che tramite la Merkel ha gestito con successo per gli USA lo scottante dossier del bailout greco, dall’altra parte dell’Egeo, appena un anno prima – la seconda potenza da cui piovono strali contro Ankara, accusata persino dal direttore del BND – i servizi segreti tedeschi, che proprio in queste settimane vengono scoperti a collaborare nello spionaggio industriale di aziende tedesche per conto dell’intelligence americana – di mentire su quali siano i reali ideatori del tentativo di colpo di stato.
E’ sintomatico del clima geopolitico che circonda Erdogan, che il presidente russo Vladimir Putin condanni pubblicamente il golpe – mentre è ancora in corso – prima di qualsiasi suo omologo della NATO. Ma perché?

UN ALLEATO SEMPRE PIU’ SCOMODO
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Erdogan e il suo islam politico, fino a poco tempo prima, non potevano certo rappresentare un avversario per gli Stati Uniti.
Del resto, la fratellanza musulmana – a cui l’AKP è legato – rappresenta il principale interlocutore di Washington durante le primavere arabe scoppiate nel 2011, il cavallo su cui gli americani puntano per rovesciare regimi ostili come quello di Gheddafi in Libia, quello di Ben Ali in Tunisia, quello di Bouteflika in Algeria. La fratellanza musulmana è anche un’influenza preponderante sui ribelli siriani che daranno il via ad una sanguinosa guerra civile contro l’Esercito Arabo Siriano di Assad, una guerra civile in cui la Turchia gioca un ruolo fondamentale, agendo in conformità agli interessi americani (oltreché ai propri) in una moderna riedizione della “dottrina Nixon” nel Vicino Oriente. La Turchia di Erdogan – con la sua politica neo-ottomana – è anche un importante alleato nello spazio post-sovietico: nel Caucaso dove sostiene l’Azerbaijan, ostile sia all’Iran che all’Armenia (e quindi, di rimando, alla Russia) e in Asia Centrale, dove può influenzare tramite storia, appartenenza etnica e religione comuni paesi in cui Washington difficilmente riesce a penetrare.
E’ in Siria che – praticamente in parallelo con il golpe – la Turchia si sta sganciando dalla strategia USA per perseguirne una propria, prendendo atto del fallimento del tentativo di rovesciare Assad.
E’ proprio nell’estate del 2016 infatti, che Erdogan lancia l’operazione Scudo dell’Eufrate, la prima di una serie di incursioni militari nel nord della Siria che portano all’occupazione di una fascia di territorio, supervisionata dalle forze armate turche ed “appaltata” ad una serie di gruppi armati reclutati tra i milioni di rifugiati siriani transitati in Turchia (sul modello dei talebani in Pakistan) come l’Esercito Libero Siriano ma anche Hayat Tahrir al-Sham – costola di Al-Qaeda – e il Partito Islamico del Turkestan, formato da volontari uiguri e centro-asiatici. Incursioni che – sebbene pubblicamente siano supportate da Washington, che non può fare altrimenti – vanno a colpire duramente i separatisti curdi, gli unici alleati rimasti a Washington nel paese, che ospitano basi militari statunitensi e permettono agli americani di gestire il flusso di petrolio della regione.
Questa nuova politica siriana di Ankara inaugura anche – a un anno dall’abbattimento di un Sukhoi russo sconfinato di 2km nello spazio aereo turco, di ritorno dalla Siria – un lungo e tortuoso processo di normalizzazione con la Russia, di concertazione con Damasco e con Teheran che proprio in quest’ultimo anno ha visto un’accelerazione, che potrebbe terminare in una sistemazione della Siria dannosa per gli interessi americani.
Vero o meno che sia il coinvolgimento statunitense nel golpe, i toni tra Ankara – rea anche di non partecipare alle sanzioni contro la Russia imposte nel 2014, nell’ottica del suo ribilanciamento strategico – e Washington si inaspriscono già prima di giugno 2016, complici lo scontro tra Turchia e UE sui migranti e anche un certo anti-americanismo che ha preso piede nella società turca, sull’onda dell’islam politico. Dopo gli eventi di quei giorni, le relazioni turco-americane si deteriorano lentamente ma inesorabilmente, fino ad oggi.
La Turchia rimane ancora un partner necessario per la NATO – e questo Washington ci tiene sempre a ribadirlo, essendo Ankara la seconda potenza militare – ma la strategia erdoganiana rischia di portare i due paesi verso una rotta di collisione. Questo diventa evidente dopo l’inizio della guerra in Ucraina, occasione in cui Erdogan sgancia completamente la strategia turca da quella NATO, posizionando la Turchia come paese equidistante, non sanzionando la Russia (e anzi, aiutandola ad evadere le sanzioni) chiudendo il Bosforo alle navi militari NATO, congegnando l’accordo del grano, bloccando per mesi l’accesso di Svezia e Finlandia nell’Alleanza Atlantica e via dicendo.
Negli USA – nonostante il ruolo chiave della Turchia nella strategia geopolitica statunitense obblighi alla cautela – sulle pagine di una delle più autorevoli testate del milieu militare americano – War on the Rocks – si parla apertamente di “dover iniziare a considerare la Turchia un avversario“, sostenendo tra le altre cose la Grecia nella disputa sul Mar Egeo. D’altro canto dalla Turchia piovono accuse pesantissime, come quella – mossa dal ministro dell’interno Soylu – che gli USA siano responsabili dell’attacco terroristico di Istanbul a novembre 2022, e che finanzino a suon di centinaia di milioni di dollari un partito dell’opposizione curda.
La Turchia arriva al voto in un clima economico incerto – con inflazione alle stelle nonostante una crescita del PIL notevole in termini reali – e con un clima sociale teso, sia a causa del devastante terremoto di febbraio 2023, sia a causa di tensioni politiche che prendono la forma di attacchi armati contro le sedi dei partiti, sia di governo che di opposizione.
Che l’anglosfera veda questa come l’occasione per liberarsi di un regime gradualmente passato da alleato ad avversario diventa piuttosto evidente, bastino in tal senso l’iconica copertina dell’Economist e il suo proverbiale “Erdogan must go“, il “consiglio” del Council on Foreign Relations di riconoscere immediatamente il risultato delle elezioni in ogni caso se dovesse vincere l’opposizione, ma di rallentare il riconoscimento del risultato se dovesse vincere Erdogan, e ci fossero accuse di frode da parte dell’opposizione. Quanto si voglia spingere oltre nell’ottenere il risultato non è dato saperlo, ma la situazione è potenzialmente esplosiva.
E maggio sarà un mese in cui gli sviluppi politici da entrambi i lati dell’Egeo potrebbero rivelarsi dirompenti. E collegati tra loro, visti i problemi mai risolti tra i due paesi.