Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Italia Strategic Governance, lo ripubblico su Inimicizie in versione ampliata e aggiornata
Oggi ricordiamo il 60esimo anniversario dell’attentato contro Enrico Mattei ad opera dei “soliti ignoti”; ovvero cosa succede quando un paese sconfitto nella seconda guerra mondiale prova a perseguire una politica energetica indipendente nell’interesse nazionale; quale giorno migliore per parlare di Libia?
Quale occasione migliore per parlare di Libia dell’insediamento di un nuovo governo, i cui esponenti – almeno nella retorica – fanno dell’interesse nazionale uno dei loro cavalli di battaglia; e spesso si riferiscono al fallimento totale della politica estera italiana in Libia? Pur ricordando che la maggioranza di allora era pressoché la stessa di adesso.

GUERRA ALL’INDIPENDENZA ENERGETICA ITALIANA
Secondo il magistrato Rosario Priore, fautore di inchieste giudiziarie sui più importanti misteri degli anni di piombo e della guerra fredda – poi passato ad occuparsi dell’aspetto internazionale di queste vicende in sede extragiudiziaria – il golpe che portò il colonnello Gheddafi al potere nel 1969 fu progettato insieme ai servizi segreti italiani, in una stanza d’albergo ad Abano Terme, in Veneto.
Aldilà di questa nota di colore, vera o meno che sia, è evidente che la Jamahiriya libica si sia presto trasformata in uno dei più grandi alleati su cui l’Italia potesse contare.
Al costo della proprietà di qualche migliaio di ex coloni italiani, ottenemmo una partnership energetica e strategica che divenne perno di tutta la nostra politica nordafricana e verso il mondo arabo.
Cosa avremmo dovuto fare, quindi, davanti al tentativo (riuscito) di regime change supportato dalla Francia nel 2011, nell’ambito della primavera araba, destinato a far sprofondare la Libia in un caos estremamente deleterio per l’interesse nazionale italiano? Avremmo dovuto fermarlo.
Un’affermazione del genere può scandalizzare, ma non sarebbe stata la prima volta (e probabilmente neanche la seconda).
Nel 1971, appena due anni dopo la presa del potere di Gheddafi, i servizi segreti italiani fermano al porto di Trieste la nave “Conquistador 13”, carica di armi e lealisti di Re Idriss al Senussi, sventando un assalto alla prigione libica denominata “Hotel Hilton” e quella che sarebbe stata una “baia dei porci” in salsa libica, organizzata da mercenari britannici.
Alla fine degli anni ’70, l’Aereo Leasing Italiana, una società di facciata per i servizi, invia in Libia dei piloti istruttori, ex aviatori dell’aereonautica militare, per addestrare i piloti libici nell’utilizzo degli SF-260 consegnati poco prima dalla Siai-Marchetti. Ci troviamo nel contesto di una guerra strisciante tra Libia e Ciad nella “striscia di Aouzou”, una guerra che di fatto diventa un conflitto per procura tra Italia e Francia: Gli “istruttori” italiani, infatti, voleranno in vere e proprie missioni di combattimento sopra il territorio contestato, come i piloti sovietici durante la guerra di Corea.
Ancora – nel 1980 – una delle possibili ricostruzioni sulla mai risolta strage di Ustica (è stato accertato l’abbattimento dell’aereo in sede giudiziaria, anche se non sono stati individuati i responsabili) parla di una vera e propria battaglia aerea il cui vero obiettivo sarebbe stato un Mig libico diretto verso un randez-vouz con il trasporto privato di Gheddafi sul mar Tirreno, che si muoveva in una “zona nera” della copertura radar della NATO, sotto la pancia dell’IH870. La responsabilità, secondo l’ex Presidente e mostro sacro della prima repubblica – Cossiga – sarebbe in questo caso da attribuire ai francesi.
Insomma, una protezione anche militare di Gheddafi non sarebbe stata una novità per l’Italia, ma nel 2011 non si scelse quella strada. Un Berlusconi la cui stella politica stava ormai tramontando – nel mezzo di inchieste giudiziarie scandalistiche e in balia di un vero e proprio golpe bianco firmato Draghi – e un’Italia ormai “addomesticata” dopo la guerra fredda, non tutelarono il proprio alleato come fece – nello stesso identico anno – la Francia in Costa d’Avorio con l’Operation Licorne. Ed il risultato è noto.
Siamo all’inizio di quella che – vista nel suo insieme – appare (non importa se lo sia davvero o meno) come una vera e propria campagna angloamericana per distruggere l’industria italiana e tedesca, per aumentare la dipendenza del “giardino” europeo (cit. Borrell) dal centro imperiale dopo la fine del momento unipolare e l’inizio della formazione di grandi blocchi.
E’ una campagna in realtà iniziata durante la guerra fredda – di cui l’assassinio di Mattei è forse il momento più eclatante – ai tempi condotta su “binari paralleli” da americani, al fine di mantenere l’Italia saldamente nel blocco filoamericano, e anglofrancesi, al fine di stroncare sul nascere una competizione interna al blocco. Che prende decisamente vigore, con scopi non tanto diversi dai precedenti, grazie alla debolezza dell’Italia successiva al regime change di mani pulite e agli stravolgimenti in campo economico iniziati a metà anni ’80.
E’ una campagna che ha tappe e riferimenti ben precisi: La nascita e crescita di movimenti NIMBY e New Left (di origine angloamericana) contrari al nucleare e ad ogni investimento energetico domestico, per l’appunto la guerra alla Libia dell’amministrazione Obama – che in questo caso assume la valenza simbolica di un’agoghé in tutto e per tutto: E’ l’Italia stessa a bombardare il motore del suo sviluppo industriale – la guerra economica all’Iran (con sanzioni secondarie agli europei), la psyop sostenuta da Amnesty, probabilmente dai servizi britannici, e da varie legion d’onore francesi in Italia per tagliare i legami commerciali con l’Egitto, e infine la guerra per procura alla Russia.

L’ITALIA NELLA GUERRA CIVILE LIBICA
Durante la guerra civile che si sviluppa nei 10 anni successivi, l’Italia supporta il Governo di Accordo Nazionale di Tripoli, nella Tripolitania che è sede della maggior parte degli interessi italiani, e che giunse ad un passo dal diventare una colonia italiana con il – poi deragliato – compromesso Bevin-Sforza del 1949.
Nel concreto però, il supporto italiano è molto timido ed inconsistente. Sembra che la priorità sia più stringere mani e scattare foto, come durante l’inconcludente Conferenza di Palermo, che tutelare l’interesse nazionale. Si potrebbe parlare del sostegno alla guardia costiera libica (del GNA), dell’ospedale militare a Misurata e del comando italiano nella missione navale EUNAVFORMED, che probabilmente chiuse un occhio sulle spedizioni di armi dalla Turchia. Ma la realtà è che, senza l’intervento militare deciso da Erdogan – battesimo del fuoco dei celeberrimi droni Bayraktyar – oggi le forze del Maresciallo Haftar controllerebbero l’intero paese, con effetti prevedibili sui legami con l’Italia.
Nel 2019 l’umiliazione più grande: viene bombardato lo stabilimento ENI di Melitah.
Con gli accordi di pace dell’estate 2020 – successo dell’intervento turco – la situazione sembra finalmente volgere verso una normalizzazione positiva per l’Italia. Certo, Erdogan le “castagne dal fuoco” non ce le ha tolte gratis (la Turchia ad esempio prende il controllo de facto della guardia costiera, ottenendo una “leva migratoria” sull’Italia) ma considerando gli errori fatti negli anni precedenti, ci troviamo – nostro malgrado – molto vicini ad un best case scenario. Grazie proprio all’inaspettata partnership con la potenza contro cui un secolo fa combattemmo per occupare la Libia.
L’”incubo libico”, invece, non è ancora finito.
Dopo un anno di elezioni posticipate “causa covid”, le forze legate ad Haftar e alla camera dei rappresentanti di Bengasi (supportate da un’improbabile coalizione che unisce Egitto, Francia, monarchie del Golfo e Russia) tentano nuovamente il colpo di mano: il 10 febbraio 2022, il convoglio del premier Dbeibeh – internazionalmente riconosciuto e in “quota” tripolitania – viene attaccato in un’imboscata. Il primo ministro sopravvive, ma il giorno seguente la camera dei rappresentanti nomina un nuovo primo ministro: Fathi Bashaga.
Bashaga che, a metà maggio, tenta di entrare a Tripoli scortato da una milizia. Questo tentativo viene sventato da altre milizie leali a Dbeibeh e supportate dalla Turchia, ci troviamo quindi davanti a due schieramenti quasi identici a quelli precedenti, pronti a muoversi nuovamente guerra.
La situazione da allora non si è ancora mossa, con Dbeibeh che propone di tenere le elezioni entro fine 2022, e costanti blocchi alla produzione di idrocarburi dovuti agli scontri militari che di tanto in tanto riaffiorano.

COSA FARE?
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Per l’Italia, se il momento migliore per agire era il 2011, il secondo momento migliore per farlo è oggi.
“Agire” non significa necessariamente mandare i carri – che non abbiamo, e se ne avevamo li abbiamo mandati in Ucraina – nel deserto libico. Agire significa tutelare attivamente l’interesse nazionale, e per farlo bisogna prima chiarire quale sia.
La questione assolutamente prioritaria è quella energetica, e lo è ancor di più alla luce dell’attuale contesto internazionale. In questo campo bisogna conseguire due obiettivi: il primo a breve termine, il secondo a medio termine.
In primis, l’Italia deve fare sì che episodi come quello del 2019 non si ripetano più: la sicurezza fisica degli stabilimenti ENI e dei loro dipendenti deve essere garantita senza mezzi termini. Non disponendo l’Italia di strumenti ibridi come le compagnie mercenarie Blackwater e Wagner – vietate dalla Costituzione – questo obiettivo si può conseguire o tramite un dispiegamento militare diretto (non unilaterale, ma naturalmente concordato con il premier Dbeibeh) o tramite il sostegno a delle forze di sicurezza locali sulla cui lealtà ed affidabilità non deve sussistere alcun dubbio.
In secundis, in virtù di interessi economici e strategici che si estendono anche oltre il comparto energetico, è nell’interesse italiano il ritorno di una forma di stabilità politica in tutta la Libia. Una stabilità – inutile dirlo – che non può essere però frutto di una sconfitta delle forze filo-italiane sostenute negli ultimi 10 anni, e non può essere il volano di un’estromissione italiana dal paese per mano turca.
Un’estromissione che non avrebbe ripercussioni solo a livello energetico e commerciale, ma anche sulla stessa sicurezza nazionale: chi controlla la costa libica, controlla i flussi migratori verso il nostro paese. Per capire cosa questo significhi, basti osservare la condizione di subalternità della Germania rispetto alla Turchia, a causa del controllo di quest’ultima della “rotta balcanica”.
L’Italia ha il potenziale economico, i legami di culturali e di intelligence e anche le risorse militari per guadagnare posizioni in seno alla coalizione pro-Dbeibeh, ora quasi totalmente egemonizzata dalla Turchia.
Ciò che manca è solamente la volontà politica – e la coscienza strategica – per risolvere finalmente la debacle più grave della politica estera italiana negli ultimi 20 anni.
18 pensieri riguardo “Cambiare passo in Libia, ricordando Enrico Mattei”