Come muore un’alleanza anti-egemonica

Il 30 marzo 1814, un baldanzoso Zar Alessandro I faceva il suo ingresso a cavallo a Parigi, seguito dal Re di Prussia, dal Principe d’Austria e dalle armate della “sesta coalizione”, vittoriose sull’esercito napoleonico dopo due anni di battaglie, iniziate con la ritirata del condottiero da una Mosca in fiamme.
Poco più a sud le armate anglo-portoghesi avevano liberato la penisola iberica dal controllo napoleonico, e tutto intorno all’Europa la grande flotta di Sua Maestà – dopo la vittoria di Trafalgar – dominava i mari e gli oceani. Un dominio che aveva utilizzato per strangolare economicamente e militarmente l’impero francese.

Era la fine di un’epoca, di cui i “100 giorni” dopo l’esilio elbano non sono stati che spettacolari fuochi d’artificio. La fine di un tentativo egemonico sul continente europeo (e questo, all’epoca, significava sul mondo intero) che solamente la Germania nazista riuscirà ad emulare per estensione 130 anni dopo.

Festanti, i vincitori si riunirono a Vienna con l’obiettivo di creare una nuova Europa in cui l’eresia napoleonica non sarebbe più stata possibile: il mondo era loro.

I giornali britannici – che fino ad una decina di anni prima pubblicavano pamphlet al vetriolo sulle mire russe in Asia – celebravano i selvaggi cosacchi come dei pii e spartani salvatori dell’Europa, le università conferivano lauree honoris causa a comandanti russi che precedentemente erano stati incaricati di studiare piani di invasione dell’India britannica. Se Francis Fukuyama fosse stato in vita, forse avrebbe parlato anche allora di “fine della storia”. Il trionfo dell’ordine monarchico legittimato da Dio e dello jus publicum europeum.

Ma come sappiamo, l’idillio era destinato a durare ben poco. Come sempre accade quando una coalizione ad hoc sconfigge l’egemone che rappresenta la sua ragion d’essere.

IL CONGRESSO DI VIENNA E LA CONFERENZA DI YALTA

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Subito, durante il Congresso diventa chiaro che la coalizione anti-napoleonica non è destinata a durare. Inizia una partita di poker diplomatico con svariati colpi bassi, incentrata su territori contesi e sullo status post-bellico della Francia. Alla fine, la Russia riesce ad ottenere il controllo della Polonia cedendo una parte di essa all’Austria, appoggiando l’annessione della Sassonia da parte della Prussia. Il Regno Unito uscirà diplomaticamente sconfitto, ma non prima di aver riabilitato la Francia come potenza per controbilanciare la Russia.

Sarà poi Londra ad assestare un colpo basso ai suoi ex alleati nella penisola iberica, costruendo insieme agli Stati Uniti la “dottrina Monroe”. La royal navy e la – seppur timida – potenza regionale americana taglieranno fuori Spagna e Portogallo dalle vecchie colonie in America Latina, permettendo un’enorme penetrazione commerciale britannica nel continente, una volta sconfitto il tentativo di unificazione di Simon Bolivar.

L’antico dissapore tra Russia e Inghilterra torna violentemente in superficie: il “grande gioco” – o bolshaya igra – riprende a pieno ritmo in Asia Centrale per concludersi solo 100 anni dopo. Un “gioco” che porterà Londra e Mosca a scontrarsi con ogni sorta di sotterfugio in una lunga guerra per procura – dando vita, si dice, ai moderni servizi segreti – che terminerà con l’annessione russa degli attuali Kazakistan, Kirghizistan, Tajikistan, Uzbekistan e Turkmenistan, l’annessione britannica di gran parte dell’attuale Pakistan, due invasioni inglesi dell’Afghanistan e una del Tibet, la partizione della Persia in due sfere d’influenza. Finirà, guardacaso, di fronte alla nuova minaccia egemonica tedesca.

Qualcosa di simile accade alla fine della seconda guerra mondiale, durante le conferenze di Yalta e Potsdam, quando Stati Uniti e Unione Sovietica devono decidere come spartirsi il mondo.
In questo caso, l’unità del fronte anti-egemonico scricchiola anche prima della fine delle ostilità. Winston Churchill spinge per ritardare le operazioni contro Repubblica Sociale e Germania per sbarcare in Yugoslavia, conquistare il paese prima dei partigiani titini e tagliare l’avanzata sovietica nell’Europa danubiano-balcanica. Stalin – è opinione di molti storici – lascia soffocare nel sangue dai tedeschi la rivolta di Varsavia per stroncare ogni possibile opposizione al filosovietico “comitato di Lublino”, che Mosca stava coltivando nell’est del paese per governare la Polonia dopo la guerra. Le bombe nucleari americane sono lanciate sul Giappone ma – anche questa è un’opinione di diversi storici – forse pensate per mettere in riga anche i sovietici, contro cui gli stati maggiori angloamericani stanno già studiando l'”Operation Unthinkable” – un piano di guerra da attuare nel caso scoppino le ostilità tra le due armate vittoriose nel cuore della Germania – e reclutando ex membri dell’SS e della Wehrmacht per formare la cosiddetta “organizzazione Gehlen“, una rete di operativi anti-sovietici dai paesi baltici all’Ucraina, passando per la Repubblica Ceca. Mosca – d’altra parte – cerca sponde già con il governo Badoglio (che non è stato riconosciuto dagli angloamericani) per estendere la sua influenza al Mediterraneo, e minaccia di annettere le regioni settentrionali dell’Iran.

Operation Unthinkable
Operation Unthinkable

Per noi, però, il periodo post-napoleonico è più interessante.

Oggi ci troviamo davanti al lento fallimento del tentativo egemonico americano che sta lasciando spazio ad un sistema internazionale che – proprio come quello uscito dal Congresso di Vienna – si profila come multipolare. Stati Uniti e Cina sono le due potenze principali – come allora lo erano Russia e Gran Bretagna – ma esiste un’altra serie di potenze indipendenti che non può essere ignorata: India, Russia, Brasile, Sud Africa, Indonesia, Turchia. Esistono una serie di potenze “sub-imperiali” che se oggi sembrano totalmente allineate a Washington, potrebbero non esserlo più domani: Germania, Italia, Francia, Polonia, Australia, Giappone. E in effetti, non sempre lo sono state.

Naturalmente, ci sono anche delle importanti differenze.

Oggi non abbiamo ancora vissuto una guerra egemonica come la guerra della sesta coalizione, e – almeno in questo possiamo sperare – la deterrenza nucleare la rende (seppur non impossibile) decisamente meno probabile. Inoltre, non esiste una coalizione anti-egemonica propriamente detta.

Esiste una coalizione finanziaria che punta a scalzare il dominio del dollaro e quello di Washington sull’infrastruttura economica internazionale: i BRICS. Esiste un’alleanza militare tra Russia, Iran e Corea del Nord in Eurasia. Una tra Cuba e Venezuela (con cui flirtano molti nuovi governi regionali) in America Latina. Una coalizione “politica” che unisce Cina e Russia – due potenze nucleari – nel consiglio di sicurezza ONU. Una coalizione commerciale che unisce Cina ed Europa – sicuramente i suoi ceti produttivi, probabilmente anche molti governi – attraverso i nuovi collegamenti infrastrutturali, in diretta opposizione agli interessi USA. Un non meglio definito “sentimento antiamericano” che è maggioritario nella umma islamica e nell’America Latina, presente anche in Europa, in Africa e in India.

Pezzi di un puzzle, che non sempre combaciano.

Come abbiamo già detto, non crediamo che l’impero americano stia “implodendo”.
Piuttosto, che – dopo aver fallito nel suo tentativo di dominare il mondo intero – si stia razionalizzando, ridimensionando, fino a diventare una delle potenze del mondo multipolare. Benché in alcune aree, ancora la più forte.

Certo è che questo processo di razionalizzazione non è ancora finito, e non sappiamo esattamente dove porterà. Potrebbe dare vita a degli Stati Uniti molto forti o invece molto deboli. Potrebbe realizzarsi senza intoppi o incappare in un disastroso incidente, come quello rischiato a Gaza.

La guerra egemonica potrebbe in ogni caso scoppiare: se c’è uno stato che ci ha dimostrato che una guerra tra potenze nucleari si può combattere è proprio la Cina, che ha fronteggiato Unione Sovietica e India in operazioni militari dirette.

E’ quindi lecito chiedersi cosa ne sarà di queste variegate coalizioni anti-egemoniche, durante questo processo. La geopolitica è implacabile e ineludibile: nessuna “amicizia senza limiti” può ignorarla.

IL TRIANGOLO STRATEGICO IN ASIA ORIENTALE

Consigli di lettura di Inimicizie

E’ dai tempi della guerra fredda che in Asia Orientale si parla di “triangolo strategico” tra Russia, Cina e Stati Uniti.

Come ci insegna la storia, i “tripolarismi” hanno quasi ovunque un tragico epilogo. E’ la teoria dei giochi – dimostrabile empiricamente – a dettare che il corso d’azione più razionale sia spesso quello di costruire un’intesa con uno degli altri due poli per “fare fuori” il terzo. E’ quello che succede in Europa centrale tra URSS e Germania a spese della Polonia, con il patto Molotov-Ribbentrop. Che rischia di succedere nel Levante tra Iran e Arabia Saudita (e se non raggiunge le sue teoriche conseguenze, questo è dovuto ad influenze globali sullo scenario locale, nonché alla deterrenza nucleare) e che – per l’appunto – avviene durante la guerra fredda, in Asia orientale.

A dire il vero, un gioco a tre tra Russia, anglosassoni e Cina si può riscontrare già ai tempi del grande gioco. Prevalentemente a spese dell’impero dei Qing, che quando si arriva all’intesa anglo-russa del 1907 è ormai poco più che una carcassa da spolpare. A cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, Mosca, Pechino e Londra si sfidano senza esclusione di colpi in Mongolia, in Xinjiang e in Tibet.

Più o meno, lo stesso schema si ripete durante la guerra fredda.

Cina popolare e URSS escono dalla guerra civile cinese (1949) come alleate.

E’ un’alleanza apparentemente senza limiti, che vede l’invio di decine di migliaia di consiglieri tecnici – gratuitamente, con intere fabbriche al seguito – dall’URSS verso la Repubblica Popolare Cinese, l’abbandono volontario dei diritti extraterritoriali – retaggio del “secolo di umiliazione” cinese – goduti dall’URSS in Manciuria e addirittura una politica della sedia vuota da parte di Mosca in consiglio di sicurezza ONU, volta a sostenere il diritto della Cina popolare a reclamare il seggio cinese, al momento occupato dai nazionalisti del Kuomintang. E’ un alleanza che spaventa gli strateghi americani, che non vedono nessuna differenza possibile tra Cina e URSS, considerandole come un blocco unico.

In realtà, sotto la superficie le cose vanno diversamente anche prima della morte di Stalin.

I cinesi si sentono – a ragione – abbandonati dai sovietici durante la guerra di Corea (a cui Stalin ha personalmente, seppur con poca convinzione, dato luce verde) in cui mettono in campo centinaia di migliaia di uomini, a fronte di un timido intervento sovietico sotto forma di piloti di caccia prestati alla Corea del nord come “volontari”. Mao è sospettoso degli aiuti economici sovietici, che ritiene – anche in questo caso, a ragione – siano disegnati per modellare l’industrializzazione cinese in modo che sia complementare con le economie integrate del blocco socialista, controllato da Mosca. Alcuni ritengono che lo sfortunato processo di industrializzazione decentralizzata e contadina del “grande balzo in avanti” (alla fine degli anni ’50) sia pensato da Pechino proprio per questa ragione.

In generale, la Cina non è disposta ad accettare come fatto immutabile il ruolo di paese guida del blocco socialista, che l’URSS al momento occupa.

Le contraddizioni scoppiano dopo l’avvento al potere di Kruschev e l’abiura dello stalinismo. La dirigenza cinese teme che Mosca – soddisfatta dello stato di grande potenza raggiunto – cerchi un accomodamento con il nemico americano e il mondo capitalista, a spese della Cina che è invece uno stato fieramente revisionista, con molte questioni irrisolte e molto spazio da (ri)guadagnare.

Pechino attacca Mosca su tutti i fronti, con pesanti denunce di “revisionismo” ideologico, tentativi di avvicinamento (riusciti, nel caso di Albania e Romania) con altri paesi socialisti, puntando sul “movimento non allineato” dei paesi che non accettano né il dominio americano né quello sovietico, sollevando questioni territoriali e costringendo l’URSS a “scoprire le sue carte”, quando le tensioni con India e Taiwan sfociano in guerra aperta. La dirigenza sovietica tenta di salvare il salvabile e ad assumere una posizione conciliante – anche a fronte di eventi imbarazzanti come la propaganda antisovietica distribuita dall’ambasciata cinese a Mosca – ma mai a spese della stabilità strategica con gli USA, che prende forma negli anni ’60 con il divieto dei test nucleari e il trattato di non proliferazione del 1968, portando ad una drastica diminuzione degli aiuti sovietici al programma nucleare cinese.

Questa tensione al “terzo polo” non sfugge più: gli USA iniziano ad utilizzare consciamente – così racconta Lorenz Luthi nel suo “The Sino-Soviet Split” – i colloqui con Mosca per arrecare il massimo danno alle relazioni sino-sovietiche. Semplicemente riconoscendo un dato di fatto – la parità dell’URSS come superpotenza nucleare – gli USA possono, tra le altre cose, accelerare il disfacimento del blocco comunista in Asia: un ottimo affare.

Il punto di svolta si raggiunge nel 1969, quando schermaglie di confine che vanno avanti da anni si trasformano in guerra aperta (e potenzialmente nucleare) nei pressi dell’isola Damansky/Zhenbao sul fiume Ussuri: l'”agguato” – così lo definisce la storiografia cinese – dell’Esercito Popolare di Liberazione alla guarnigione sovietica da il via ad una serie di rappresaglie e sanguinosi scontri, alla mobilitazione totale – con allerta nucleare – in Cina e al febbrile studio di piani di contingenza a Mosca. Il dado è tratto: negli stessi mesi il segretario di stato americano – da poco defunto – Henry Kissinger, fa la spola in gran segreto tra il Pakistan e la Cina, per preparare lo sconvolgente viaggio di Nixon nella Repubblica Popolare del 1972, che segnerà la normalizzazione tra i due paesi. Con l’espulsione di Taiwan dalle Nazioni Unite, le alleanze in Asia orientale si sono definitivamente ribaltate.

Soldati sovietici presso l'isola Damansky, sede degli scontri più sanguinosi del 1969
Soldati sovietici presso l’isola Damansky, sede degli scontri più sanguinosi del 1969

A Mosca si torna a temere il “pericolo giallo”, che aveva ossessionato la Russia zarista e poi sovietica dopo l’ascesa del Giappone come grande potenza, a ridosso del vasto ma sguarnito estremo oriente russo: nel periodo di massima distensione in Europa – dove i confini sono congelati con gli accordi di Helsinki del 1975 e gli scambi commerciali con i paesi europei della NATO raggiungono un nuovo livello – l’URSS deve spostare ad est le sue forze militari convenzionali e nucleari.
Quando gli USA sono pronti a passare all’attacco con l’amministrazione Raegan, il quadro strategico in Asia per l’URSS è drammatico. La sinofobia ormai radicata nelle alte sfere sovietiche – dall’eminenza grigia Suslov all’incaricato del Politburo per gli affari cinesi, Rakhmanin, passando per lo stesso Brezhnev – ha contribuito all’improvvido intervento in Afghanistan, dove Pechino sostiene con forniture belliche i mujaheddin insieme ad americani, sauditi e pakistani. In Indocina si combatte una guerra per procura in Cambogia, dove il Vietnam – aiutato dall’URSS – combatte contro i Khmer Rouge sostenuti da Cina, Regno Unito e Stati Uniti, dopo un’invasione nel 1978 che ha portato anche ad una breve guerra di confine tra Hanoi e Pechino.
Maoisti che sostengono integralisti islamici, liberali anglosassoni che sostengono Pol Pot, alla faccia di una lettura della guerra fredda come scontro prevalentemente ideologico.

Serviranno a poco i tentativi sovietici di riavvicinamento alla Cina, avviati da un decrepito Brezhnev nel 1982 a Tashkent e proseguiti energeticamente sotto Andropov, Chernenko e Gorbaciov. Il segretario del Partito Comunista Cinese – Deng Xiaoping – sente ormai l’odore di sangue di un impero sovietico in fase di crollo, oltre all’odore dei dollari americani ed europei che stanno confluendo verso le nuove zone economiche speciali, proiettando la Cina verso una nuova era di sviluppo. Vincendo la resistenza di chi nel Politburo è scettico degli americani e crede nell’alleanza naturale con l’altro grande paese socialista, Deng utilizzerà i negoziati con i sovietici come carta per avere di più – in termini di trasferimenti di tecnologia e concessioni su Taiwan – dagli Stati Uniti, apertamente considerati come un vero e proprio alleato.

La guerra fredda in Asia si chiude così.

E ORA?

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Gli eventi descritti sopra hanno molto da insegnarci.

L’odierna intesa tra Russia e Cina è nata su presupposti anti-egemonici: ha mosso i suoi primi passi contrastando il tentativo americano di acquisire la supremazia nucleare con il suo scudo antimissile, si è forgiata con l’espulsione degli USA dalle basi centroasiatiche fondamentali per sostenere la guerra in Afghanistan – dopo la dichiarazione SCO del 2005, successiva ai fatti di Andijon in Uzbekistan – e oggi si nutre del mutuo interesse ad indebolire Washington, per sostenere le rispettive pretese in Europa e nel Pacifico.

Indubbiamente oggi non è basata solo su elementi “negativi”, ma anche positivi: l’integrazione economica tra Cina ed Europa – al riparo dagli ostili oceani dove la talassocrazia americana può ancora fare il brutto e il cattivo tempo – passa attraverso la ferrovia transiberiana russa, e in futuro attraverserà sempre più di frequente la Northern Sea Route, la rotta artica nazionalizzata da Mosca dove i rompighiaccio nucleari di Sovcomflot – che non hanno eguali in quantità e qualità – fanno da apripista alle portacontainer. Il capitale e la popolazione cinese possono valorizzare il vasto e ricco estremo oriente russo più di quanto Mosca sia in grado di fare da sola. L’intesa strategica della Russia con paesi come l’India, il Vietnam, la Birmania e le Filippine può aiutare la Cina a navigare in acque meno ostili nell’Indopacifico.

Ma come ci insegna la storia, la differenza tra una fonte di cooperazione e una fonte di insicurezza è molto labile. L’integrazione economica può essere vista come predatoria dal partner più debole (ieri la Cina, oggi la Russia) o può effettivamente diventare tale. Le alleanze della Russia in Asia meridionale e in Indocina possono portare la Cina a temere un accerchiamento, o effettivamente essere usate a tale scopo in concerto con attori esterni.

Le questioni territoriali sono state definitivamente risolte negli anni ‘2000, ma in altre aree esistono chiari conflitti d’interesse, benché al momento sopiti dal quadro di collaborazione generale: cosa può succedere in Asia Centrale, se il pericolo di un’infiltrazione americana diventa sempre meno rilevante e la “dottrina Yi-Lavrovapplicata in Kazakistan perde di senso? Per la Russia, un corridoio economico, logistico ed energetico che congiunga Cina ed Europa passando da Kazakistan, Mar Caspio e Caucaso (esiste già, sottoforma della “Middle Route” della via della seta e del gasdotto Baku-Tblisi-Ceyhan) è un danno alla propria leva commerciale sulla Cina ed energetica sui produttori dell’Asia Centrale. Per la Cina, invece, rappresenta una diversificazione dei paesi di transito nel commercio est-ovest e un aumento dei fornitori energetici, che porta vantaggi economici ed una maggiore libertà di manovra.

In un comunicato congiunto, Putin e Xi hanno definito "senza limiti" l'amicizia tra Cina e Russia, elevata al di sopra del livello di una tradizionale partnership.
In un comunicato congiunto, Putin e Xi hanno definito “senza limiti” l’amicizia tra Cina e Russia, elevata al di sopra del livello di una tradizionale partnership.

Il “gioco a 3” della seconda metà del secolo scorso potrebbe riprodursi con lo stesso esito.

La Cina potrebbe soddisfarsi del suo status quo di superpotenza, e cercare un accomodamento con gli USA a spese della Russia. D’altro canto, la Russia potrebbe sviluppare una diffidenza dei motivi di Pechino e temere di essere sacrificata sull’altare della distensione sino-americana, diventando apertamente ostile agli interessi cinesi (forte anche dell’alleanza con l’India) in attesa di una proposta indecente degli americani che potrebbe benissimo arrivare, abbassatasi la tensione in Ucraina.

E’ vero l’esatto opposto di quello che sostengono i (farneticanti) teorici dell'”asse del male”, secondo cui esiste un unico grande mostro antiamericano – o come piace dire a loro, “antioccidentale” – la cui vittoria globale diventa sempre più probabile dopo ogni vittoria locale.

Un ulteriore indebolimento dell’impero americano – tramite una vittoria russa in Ucraina, cinese a Taiwan, un costoso impantanamento nel Golfo Persico o in America Latina, un evento catastrofico al suo interno – non farebbe che rendere ancora più probabile una spaccatura delle alleanze che oggi esistono in senso anti-americano.

Se gli Stati Uniti cessano definitivamente di essere percepiti (e di comportarsi) come un candidato all’egemonia planetaria, quindi come una potenza pericolosa ed ingestibile “ad armi pari” per tutti gli attori del sistema internazionale che non partecipano alla spartizione delle sue spoglie di guerra ed hanno la forza di resistervi, allora la collaborazione con Washington diventa solo una delle tante strade che le altre potenze possono intraprendere nel pericoloso gioco delle relazioni internazionali e dell’equilibrio di potenza.

Un domani Mosca potrebbe temere Pechino più di quanto teme Washington. Un domani, i cinesi potrebbero volersi spartire il mondo – o quantomeno l’Asia – con gli americani.

Gli Stati Uniti potrebbero un giorno gettare nella spazzatura i (perversi) sogni neocon e ricordare il “triplo contenimento” di Russia, Cina e Iran, la guerra a tutto campo nel mondo islamico come un’infelice sbronza del passato, per passare a strategie più realistiche in grado di garantire un solido – seppur ridimensionato – posto nell’arena internazionale.

Il sentore è che quest’ultimo processo stia già avvenendo, che gli Stati Uniti possano affrontare la fine del loro tentativo egemonico senza necessariamente incontrare l’esito della Francia di Napoleone, o della Germania di Guglielmo II e Hitler.

Le sfide, non banali, sono grossomodo due: evitare di perdere una guerra egemonica – che potrebbe scoppiare da un momento all’altro anche per puro fraintendimento – e trovare un modo di ripensare un assetto interno che si nutre – dal momento della fondazione degli Stati Uniti d’America – della costante presenza di una frontiera da conquistare, che dopo 250 anni potrebbe finalmente venire meno.

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