Il costo della guerra

La guerra in Ucraina è senza dubbio una guerra per procura tra Russia e NATO. Legittimamente non viene vista così dagli ucraini – che combattono per le loro ragioni – ma dal resto del mondo sì: viene vista così in Russia – come ha ribadito Putin in un discorso denso di informazioni a Valdai – viene vista così nel “mondo di mezzo”, che esprime a entrambe le parti il suo fastidio e ha come unica priorità la cessazione delle ostilità, viene vista così nella NATO, dove viene definita come “un modo poco costoso per eliminare la minaccia russa” o come “il miglior investimento mai fatto“.

A un anno e mezzo dall’invasione russa, aldilà di una scorta sovietica in rapida diminuzione – pressoché nulla, almeno per ora, la capacità ucraina di produrre armamenti pesanti su larga scala – ci troviamo davanti ad una guerra combattuta tra russi con risorse russe, armi russe – lentamente rimpiazzate da una modesta per quanto non esorbitante e lacunosa produzione domestica, e da accordi una tantum con “paesi amici” – e ucraini con armi NATO, intelligence NATO, fondi forniti da paesi NATO. A complemento di questa realtà “ufficiale”, ne esiste anche una ufficiosa: una guerra non dichiarata popolata da azioni delle forze speciali britanniche, poliziotti polacchi, sabotaggio di gasdotti, dispiegamenti militari tenuti segreti e tanto altro ancora. Con i dovuti distinguo, qualcosa che può ricordare una guerra del Vietnam a parti inverse.

Tutto questo serve a rendere l’idea: senza un supporto costante della NATO, lo sforzo bellico ucraino, in una guerra d’attrito, è destinato a sgretolarsi. Con che risultati e quanto velocemente è di secondaria importanza: il quadro complessivo è chiaro a tutti gli attori in gioco, lo è sempre stato.

La novità è che – per la prima volta dall’inizio della guerra – questo supporto è stato messo seriamente in discussione: fallita l’offensiva d’estate ucraina, condotta con una forza d’assalto corazzata di 12 brigate – di cui 9 interamente equipaggiate dalla NATO, con forniture non replicabili nel breve periodo – nelle capitali dell’alleanza si è notato un cambio di attitudine. Un ripensamento della strategia ucraina è divenuto necessario.

Entrando nel vivo del problema, bisogna separare quanto sta avvenendo negli Stati Uniti dagli sviluppi in Europa.

DISSIDI POLITICI E DIBATTITI STRATEGICI

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Il 2 ottobre, il Congresso americano – con un accordo dell’ultimo minuto volto ad evitare uno shutdown del governo – ha approvato un budget senza gli aiuti all’Ucraina proposti dall’Amministrazione Presidenziale. In seguito, l’ala America First del partito repubblicano – guidata da Matt Gaetz – ha proposto un voto per rimuovere il presidente della camera McCarthy (anch’egli repubblicano). Voto che ha avuto successo, impantanando ulteriormente il Congresso nell’elezione di un nuovo Speaker, prima della quale non sarà possibile nessun altro provvedimento.

Questo fatto in se non è indice di un ripensamento politico nei confronti del sostegno alla guerra. E’ qualcosa che rientra nella (a)normalità del sistema politico statunitense – esacerbata dalla crescente polarizzazione dell’ultimo decennio – soprattutto in una situazione di coabitazione tra Congresso repubblicano e Presidenza democratica, ad un anno dalle elezioni presidenziali.

Una disfunzionalità politica che talvolta può anche lambire le questioni internazionali e mettere in pericolo lo status imperiale degli USA – come sostiene l’ex segretario alla difesa Stephen Walt su Foreign Affairs – ma che di fatto non cambia nulla nel grande schema delle cose. Se la questione fosse solo questa, ci si potrebbe al massimo aspettare un ritardo del prossimo pacchetto di aiuti. E se i tumulti congressuali dovessero continuare più del previsto, l’Amministrazione potrebbe dirottare fondi di emergenza da altre appropriazioni, o scoprire nuovi miliardi con “errori contabili“.

E’ più interessante invece, notare come in parallelo allo spettacolo politico, si intravedano segnali – questa volta sì – di un reale ripensamento.

Si può notare ad esempio, come sia “trapelato” un documento dell’amministrazione Biden – che dell’argomento se ne intende, avendo installato suo figlio nel consiglio d’amministrazione di una compagnia energetica ucraina, durante la vicepresidenza – estremamente critico della corruzione nel paese, confermando uno dei cavalli di battaglia dei critici statunitensi agli aiuti all’Ucraina. Sempre POLITICO (testata di proprietà tedesca con legami di lungo corso con l’intelligence americana) rilancia l’ex Presidente della Commissione Europea – Jean Claude Juncker – risorto nell’agone pubblico unicamente per ribadire quanto sia corrotta l’Ucraina e quanto sia irrealistica la prospettiva di una sua adesione all’UE. Che la corruzione in Ucraina sia abnorme non è nulla di nuovo, in un documentario dell’agosto 2022 di CBS News – immediatamente auto censurato – si era stimato che “solo il 30% delle forniture militari inviate raggiungesse il fronte”. Che l’amministrazione USA sembri essersene accorta solo a partire da questa estate è quantomeno sospetto.

I dubbi nei confronti degli aiuti all’Ucraina crescono però principalmente nel partito repubblicano, che fino ad ora ha sostenuto in modo bipartisan gli aiuti militari e finanziari che gli Stati Uniti hanno stanziato. Lo stesso McCarthy era una delle voci critiche più importanti all’interno del partito, sostenendo lo slogan “basta assegni in bianco” e rifiutandosi ripetutamente di incontrare il presidente Zelensky, affermando di avere molte “domande” per Kiev e Biden, chiedendo una strategia chiara e limitata nel tempo. Dello stesso avviso – di recente – è diventato un altro pezzo grosso del partito repubblicano, Marco Rubio. Particolarmente rilevante perché vicino alla tradizionale ala neocon del partito, quella che maggiormente sostiene gli aiuti all’Ucraina.

L’ala interventista e internazionalista del partito – quella erede di Bush per intendersi – sta lentamente convergendo sulle posizioni dei colleghi isolazionisti su questo dossier, per un motivo molto chiaro: la necessità di assegnare maggiore priorità ad altri teatri d’intervento. La razionalizzazione imperiale degli Stati Uniti implica l’abbandono di alcuni impegni internazionali e il rientro all’interno di un preciso perimetro, i cui confini devono essere rafforzati, e all’interno del quale deve aumentare il controllo statunitense. In quest’ottica, la guerra in Ucraina è già stata vinta dagli Stati Uniti: le connessioni energetiche/politiche/commerciali tra Europa e Russia sono state notevolmente ridotte, i paesi europei della NATO sono diventati massicci importatori di idrocarburi americani, la Germania – unico potenziale polo di aggregazione per un’Europa strategicamente autonoma – è fortemente indebolita, l’Intermarium – la fascia di paesi che separa la penisola europea dalle steppe eurasiatiche, di Mackinderiana memoria – saldamente alleato degli USA e rafforzato all’interno dell’UE e della NATO. Che Tokmak o Zhaporozhye siano in mani ucraine o russe è sostanzialmente irrilevante.
Quali sono i teatri dove Washington deve concentrare maggiormente le sue energie?

Nel 2023 gli avanzamenti territoriali in Ucraina sono stati pochi, e poco significativi. Secondo questa mappa del New York Times rilasciata a inizio ottobre, la Russia ha guadagnato più territorio dell'Ucraina.
Nel 2023 gli avanzamenti territoriali in Ucraina sono stati pochi, e poco significativi. Secondo questa mappa del New York Times rilasciata a inizio ottobre, la Russia ha guadagnato più territorio dell’Ucraina.

IMPEGNI IMPERIALI

Consigli di lettura di Inimicizie

Il più importante di tutti è quello Pacifico, con focus sulla prima catena di isole, la grande muraglia (anti) cinese che rappresenta il confine dell’influenza americana nella regione. In questo teatro è molto il lavoro da fare: sono state aperte nuove basi nelle Filippine – che dovranno essere riempite e rifornite – fornite nuove garanzie nucleari alla Corea del Sud, è stata forgiata l’alleanza AUKUS, intentata una partnership con il Vietnam (che per avere successo dovrà essere sostenuta da grandi quantitativi di armamenti e in futuro forse anche da nuove basi). Per gli USA è necessario mantenere una riserva strategica da inviare a Taiwan in caso di guerra – nel giro di poche ore perché sia utile, secondo i wargames del CSIS – e riavviare a pieno regime la produzione aeronavale, al momento surclassata da quella cinese (la quantità conta quanto e anche più della qualità, insegna la guerra in Ucraina). Impegni estremamente onerosi per il complesso militare-industriale americano e per le risorse del Pentagono, che rendono obbligatorio il taglio di altri impegni non essenziali.

Rappresentazione stilizzata della prima catena di isole
Rappresentazione stilizzata della prima catena di isole

Il secondo – solo leggermente meno importante – è il Southern Command, con obiettivi l’esclusione di attori ostili dall’area sotto protezione della Dottrina Monroe, e la messa in sicurezza (per quanto possibile) del confine con il Messico. Nel partito repubblicano è ormai diventata maggioritaria e trasversale l’idea di un’intervento militare diretto in Messico contro i cartelli della droga, ritenuti responsabili di una vera e propria epidemia che investe gli strati meno abbienti della società americana, nonché del traffico di esseri umani che ha portato a 2 milioni di ingressi illegali nel paese al solo settembre 2023, e al conseguente collasso delle “città santuario” dove i migranti tendono a concentrarsi, prima tra tutte New York City. Un’intervento che sarebbe estremamente oneroso per il Pentagono – paragonabile alla guerra in Afghanistan – e che creerebbe problemi di sicurezza anche all’interno degli Stati Uniti, vista la prossimità geografica e la miscela demografica dei due paesi.

Anche l’amministrazione democratica – per quanto più cauta nei confronti del Messico – non si è dimostrata indifferente: la costruzione del tanto deriso muro di confine è ripartita – secondo la posizione ufficiale di Biden, suo malgrado – e, più importante, gli USA si preparano a nuove missioni militari nella regione: sia il Peru che la Colombia hanno autorizzato le forze armate americane a dispiegarsi e svolgere missioni nei rispettivi paesi. Ad Haiti è stato dato il via libera ad un intervento poliziesco-militare dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La guida sarà assunta dal Kenya, ma il ruolo americano sarà sicuramente importante.

A prescindere dal colore della prossima amministrazione presidenziale, l’impegno militare americano nella regione aumenterà.

Messico centrale, estate 2023: l'intelligence navale americana interviene sulla scena di uno scontro a fuoco che ha coinvolto un SUV corazzato della CIA.
Messico centrale, estate 2023: l’intelligence navale messicana interviene sulla scena di uno scontro a fuoco che ha coinvolto un SUV corazzato della CIA.

A questi due fronti caldi se ne unisce adesso uno particolarmente fastidioso per Washington: la guerra in Medio Oriente, iniziata il 7 ottobre con un attacco a sorpresa delle milizie palestinesi dalla striscia di Gaza, che ha sbilanciato Israele ed ottenuto successi senza precedenti, rendendo obbligatoria per Tel Aviv – secondo la sua dottrina strategica – una retribuzione forte e dichiaratamente sproporzionata. Scrivo questo articolo nel secondo giorno di guerra, quando il conflitto rimane circoscritto ad Israele e Hamas (sostenuta dall’Iran) al netto di qualche schermaglia al confine. Allo stato attuale delle cose è però facile intravedere una guerra con ramificazioni regionali.

Questo è un grosso problema per Washington, che dal Vicino Oriente si sta – per le ragioni spiegate sopra e in precedenza – gradualmente ritirando. Ma che non può abbandonare – per ragioni sia interne che geopolitiche – il suo più grande alleato, e dovrà sostenere Israele con ogni mezzo necessario, impiegando ulteriori risorse che non abbondano, visto l’ampio portfolio di impegni di Washington. Forse anche intervenendo in prima persona, imbarcandosi in una guerra che non sarebbe il solito “facile” intervento in Medio Oriente, contro un avversario sofisticato e determinato, avendo molte basi nella regione circondate da asset iraniani, governi filo-iraniani o in monarchie arabe dalla dubbia lealtà.
L’amministrazione Biden in questo teatro ha fallito completamente: non è riuscita a dissuadere l’Iran con le buone (corrompendolo, dicono le malelingue) ma allo stesso tempo ha rotto la sua architettura di deterrenza, alienando l’Arabia Saudita non fornendo il necessario supporto nella guerra irregolare contro Teheran – in cui droni hanno ripetutamente colpito impianti petroliferi, navi petroliere e impianti di desalinizzazione (fragili colonne portanti del regno saudita) e umilianti raid di confine yemeniti hanno più volte massacrato le truppe del golfo – allo stesso tempo tentando di costringere Riyadh a partecipare alla guerra in Ucraina, aumentando la sua produzione petrolifera. Alla monarchia saudita – per sopravvivere – non è rimasta altra scelta che siglare un patto di non aggressione con l’Iran mediato da Cina e Russia, dando vita al “nuovo ordine nel Golfo Persico” che isola Israele ed incoraggia i suoi nemici (esterni ed interni) ad agire. Dunque obbliga Washington ad intervenire, se necessario.

Analizzato questo quadro, il pantano ucraino, buco nero in cui mesi di produzione militare vengono ingoiati per avanzare qualche centinaia di metri da entrambi i lati, deve essere ripensato. Non può essere del tutto abbandonato, pena una Russia troppo forte in Europa, in grado di creare problemi dall’Artico al Pacifico, e forse anche ripensamenti negli alleati europei. Va gestito.

Gli USA certamente vareranno nuovi pacchetti di aiuti per l’Ucraina, ma l’optimum per Washington sarebbe una guerra per procura sostenuta per intero dagli europei. Europei che sul fronte del Pacifico servirebbero a poco o nulla (esclusa forse la Francia) e che vengono rimproverati dai tempi di Nixon – ignorando, o facendo finta di ignorare, cosa implichi il “contratto sociale” con un protettorato – di non fornire abbastanza supporto militare all’alleanza. Un’Europa a traino anglo-franco-polacco a cui Washington spera di non aver lasciato altre opzioni a sostegno di un’Ucraina pienamente “pakistanizzata“, potrebbe tenere la Russia sotto scacco potenzialmente in eterno, inibendo la sua azione in ogni altro teatro.

Washington non è riuscita ad evitare la formazione (anzi, l’ha in gran parte causata) del triangolo Russia-Cina-Iran, come cautelava Brzezinski appena finita la guerra fredda. Può però neutralizzare uno dei suoi “angoli” e – a seconda della conformazione che avrà il Vicino Oriente quando le armi si fermeranno – sfidare la Cina in un tete a tete nel Pacifico, che potrebbe ricordare – su scala regionale, questa volta – il bipolarismo del secolo scorso.

Detto questo, cosa succede dall’altra parte dell’Atlantico?

Mappa della situazione strategica nel Vicino Oriente. In verde la presenza militare iraniana, in blu e bianco quella americana, in giallo i paesi in bilico.
Mappa della situazione strategica nel Vicino Oriente. In verde l’influenza politico-militare iraniana, in blu e bianco la presenza militare americana, in giallo i paesi in bilico.

SOSTEGNO STRUTTURALE

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In Europa, l’Alto Rappresentante Borrell non usa mezzi termini nel sostenere che l’UE non sia in grado di sobbarcarsi l’intero sforzo bellico ucraino senza sostegno americano. Se sente di doversi esprimere in tal senso, è evidente che il pericolo esiste.

La situazione è particolarmente grave per quanto riguarda gli aiuti militari, trovandosi gli eserciti europei della NATO o in stato di totale abbandono da decenni (questo è il caso ad esempio della Germania, ma per un protettorato è giusto così) o al contrario in stato di espansione, e quindi affamati di materiale bellico. Questo è il caso della Polonia, e la disputa sul grano cela il reale motivo per cui le autorità polacche hanno dichiarato di non voler inviare più armamenti oltre agli impegni già presi: non c’è più niente da inviare, e quello che si riuscirà ad acquistare dall’estero dovrà essere convogliato nel grande piano di riarmo che vedrà le forze armate polacche raddoppiare entro il 2030.

Se poi le due potenze più “globali” della NATO europea – Francia e Regno Unito – dichiarano di aver raggiunto il fondo del barile, è facile capire in che condizione possano essere gli arsenali di paesi ancora meno preparati, come Italia, Spagna, Olanda. Kiev è ben conscia di questo, e dopo una conferenza con i principali rappresentanti dei ministeri della difesa e dei complessi militari-industriali, ha annunciato un ambizioso piano di riarmo interno, tramite joint venture con compagnie europee, americane e turche.

Dove l’Unione Europea può pesare – e nel corso della guerra, ha pesato – maggiormente è invece sul piano finanziario. La Commissione ha proposto ad agosto un piano da 50 miliardi di euro spalmati dal 2024 al 2027, che – pur lungi dal soddisfare i bisogni di Kiev – dovrebbe essere in grado, secondo le autorità, di assicurare la stabilità economica e sociale dell’Ucraina. I fondi precedentemente assegnati, come il “Peace Fund” dell’UE e i fondi della “Neighbourhood Policy” dirottati sull’Ucraina si esauriranno a fine 2023. La nuova “Ukraine Facility” è disegnata per sostituire tutti gli strumenti comunitari precedentemente utilizzati e razionalizzarli in una sola voce di spesa.
La conformazione di questi aiuti però impone anche ulteriori considerazioni: 33 miliardi di prestiti, 9 a fondo perduto, 8 a garanzia di prestiti privati. Da sborsare in piccole tranche quando di volta in volta la Commissione Europea avrà valutato il progresso dell’Ucraina nel varare “riforme” da concordare in un apposito “Ukraine Plan“.
Cosa ricorda? Ci viene in soccorso il Parlamento Europeo: “As is the case with the EU’s recovery plan, Next Generation EU, the plan will constitute the reference for fulfilment of the necessary conditions and set the indicative annual amounts and the timeline for the facility’s implementation“. Togliere soldi per poi restituirli a prestito in cambio di “riforme”, è il metodo Von der Leyen che ormai conosciamo. Non diverso dal metodo Draghi impiegato con il taglio della liquidità alla Grecia nelle fasi cruciali dei negoziati e con l’ultimatum all’Italia durante la bollente estate del 2011. Passiamo quindi da un aiuto (apparentemente almeno) disinteressato ad uno estremamente interessato.

Un flusso pluriennale di miliardi di euro che può essere acceso e spento, rallentato e velocizzato a seconda delle priorità di Bruxelles. In particolare di chi scrive le regole del gioco a Bruxelles.

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Non sappiamo ancora se questo cambio di impostazione sia un elaborato piano per spostare l’Ucraina in orbita tedesca – ricordiamo chi offre maggiori contributi al budget UE e chi ha ancora il maggior potere decisionale nelle istituzioni – e favorire l’elezione a presidente di Klitsckho o, più banalmente, un modo per ottenere un ritorno sull’investimento ucraino a livello europeo.

Sicuramente lo scopo delle riforme non è quello di favorire una rapida entrata dell’Ucraina nell’UE: ogni persona sana di mente sa che questo non è neanche lontanamente immaginabile.

In ogni caso, l’Ukraine Facility Regulation ha ancora una strada tortuosa davanti a se prima dell’approvazione.

Il 6 ottobre ha affrontato il suo primo passaggio parlamentare, dall’approvazione scontata. I comitati congiunti esteri e budget, hanno dato il via libera alla discussione tra istituzioni (con voto favorevole di tutti i partiti italiani, per inciso). Adesso il regolamento deve attraversare il Trilogo, un dialogo informale tra le 3 autorità legislative dell’UE – Parlamento, Consiglio, Commissione – volto a trovare un accordo prima di procedere alle votazioni formali nelle rispettive sedi. Secondo il PE, il Trilogo non inizierà prima di novembre.

E’ qui che viene la parte difficile: se per il Parlamento e la Commissione – in quanto pressoché privi di potere decisionale reale – è sempre facile assumere la posizione di principio, o di virtue signaling (anche nei confronti dell’Azerbaijan, senza alcun risvolto pratico appunto) è nel Consiglio – dove sono rappresentati gli stati membri, dove realmente si decide – che si potrebbero riscontrare delle difficoltà. Un normale regolamento richiederebbe una maggioranza del 66% in Consiglio, implicando una facile approvazione, ma non questo: richiedendo una modifica al budget dell’UE e riguardando questioni di politica estera, l’Ukraine Facility Regulation impone l’unanimità degli stati membri.

Tutti gli stati più scaltri – non solo quelli apertamente freddi sugli aiuti all’Ucraina come Ungheria e Slovacchia – saranno tentati di mercanteggiare usando il loro voto come merce di scambio, portando ad un rallentamento generale del processo.

Anche dopo l’approvazione del Regolamento, gli aiuti non potranno essere erogati prima della contrazione di un Framework Agreement tra UE e Ucraina, e della ratifica del legislatore UE dello Ukraine Plan che sarà in seguito concordato da Kiev e Bruxelles. Il regolamento prevede che in mancanza di questi accordi si possano erogare solo tre tranche mensili da 1 miliardo e mezzo – fino a marzo – per “traghettare” gli altri fondi che finiranno a dicembre 2023.

Il tempo dunque stringe, e la contrattazione sull’Ukraine Facility è destinata a riaprire vecchie ferite tra gli stati membri (tra tutte, i fondi congelati a Ungheria e Polonia).

E’ legittimo chiedersi se gli europei siano in grado di fornire un supporto all’Ucraina sufficiente per garantire la sua sopravvivenza a lungo termine in una guerra d’attrito attiva. Se non ci riusciranno, si profileranno delle scelte ancora più difficili: tentare di congelare il conflitto, intervenire direttamente sul terreno per tracciare un perimetro oltre il quale la Russia non potrà spingersi -magari riprendendo idee che sono circolate ripetutamente in Polonia, nei baltici e nel Regno Unito nell’ultimo anno e mezzo – oppure… mutare radicalmente strategia.

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