“Africa addio”? No grazie

Con 7 colpi di stato negli ultimi due anni – e numerose insurrezioni attive – l’Africa sub-sahariana può essere considerata come la regione più instabile del pianeta.

La ricchezza di risorse naturali, la fluidità dei confini e l’arretratezza economica (quindi potenzialità di rapido sviluppo) rendono la regione sempre più appetibile per le potenze straniere, che successivamente alla decolonizzazione l’avevano relegata ad una periferia geopolitica quasi irrilevante. Dell'”heartland africano” – come lo definisce Mackinder – oggi vale la pena parlare, soprattutto per il nostro paese che, come vedremo, ha enormi interessi nella regione.

Gli attori principali in questa feroce competizione geopolitica sono due. Non Cina e USA, che combattono una battaglia piuttosto galante, perlopiù pacifica (almeno per ora) a colpi di accordi di investimento, spionaggio, pressioni e intese politiche.

A caratterizzare maggiormente gli sviluppi militari nella regione è piuttosto una guerra per procura tra Francia e Russia. Le due potenze che poco più a nord – in Libia – sono di fatto alleate nel supportare il governo orientale del Maresciallo Haftar, a sud del deserto combattono senza esclusione di colpi una guerra non dichiarata: la Francia per mantenere una lucrativa struttura neo-coloniale costruita dopo la concessione della sovranità formale ai paesi della Francafrique – nonostante le continue promesse di una “nuova era” da parte dei presidente francesi – la Russia per farsi strada in una regione dove storicamente ha trovato terreno fertile, dove i vuoti di potere consentono di espandere la propria influenza con la forza militare per partecipare alla gestione delle immense risorse naturali finora restate in mano a Parigi, nonché stabilire una presenza in una zona cruciale per l’equilibrio dell’Europa e – dunque – costringerla a venire a patti.

L'"Heartland meridionale" secondo Mackinder. Secondario rispetto a quello eurasiatico, ma comunque importante per i destini dell'"Isola Mondo".
L'”Heartland meridionale” secondo Mackinder. Secondario rispetto a quello eurasiatico, ma comunque importante per i destini dell'”Isola Mondo”.

DALL’ATLANTICO AL MAR ROSSO

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Dal colpo di stato in Guinea del 2021 – che ha rovesciato il filofrancese Alpha Condè – l’influenza russa si è espansa gradualmente verso est, sia tramite contatti governativi tra le nuove giunte salite al potere rispettivamente in Mali, Burkina Faso, Niger e il governo di Mosca, sia tramite il lavoro sottotraccia del Gruppo Wagner, che ha la sua principale base di operazioni nella Repubblica Centroafricana, poco più a sud. L’assassinio del mercenario golpista Prigozhin insieme a tutto il gruppo dirigente della compagnia militare privata non ha interferito: anche se non è chiaro chi stia guidando le truppe – tantomeno chi le guiderà in futuro – sappiamo che il contingente militare sta continuando le sue operazioni nella regione, come mostra un recente video degli scontri in Mali tra forze governative e ribelli attestati nel nord del paese.

A metà settembre, i leader maliano, burkinabe e nigerino si sono incontrati in Mali per firmare la “Carta di Liptako-Gourma”, con cui hanno dato vita all'”Alleanza del Sahel“, un’alleanza militare che ha come scopo sia quello di unire le forze rispetto a tentativi esterni di cambio di regime, sia rispetto alle insurrezioni che minano la sicurezza dei 3 stati dall’interno, che né le azioni ECOWAS né gli interventi francesi e ONU sono riusciti a sopire. Con questo passo, è stata data una sostanza inedita – militare e multinazionale – al fenomeno politico che sta investendo il Sahel. Non è un caso che pochi giorni dopo, con le truppe e le legazioni diplomatiche francesi circondate in Niger – senza la possibilità di ottenere rifornimenti – il presidente Macron, forse memore della disfatta di Dien Bien Phu, ha ordinato il ritiro dal paese dopo settimane di braccio di ferro.

A est del Niger – ultimo alleato che la Russia si è assicurata nella regione, ancora a rischio di intervento armato da parte della coalizione ECOWAS a guida nigeriana, supportata dalla Francia – si trova il Ciad, un paese che dalla morte in battaglia del suo storico leader – filofrancese – Idris Deby, sta svolgendo un delicato lavoro di bilanciamento tra Francia, Russia, Italia e Stati Uniti, mentre è alle prese con numerose insurrezioni, particolarmente ostiche da combattere poiché basate nei paesi circostanti: Repubblica Centroafricana, Libia, Sudan. E’ proprio in quest’ultimo paese – che si affaccia sul Mar Rosso – che si gioca l’ultima importante partita.

La guerra civile sudanese – iniziata nel 2023 – che si è presto impantanata prendendo la forma di un tipico conflitto africano strisciante, in cui nessuna delle due coalizioni dispone delle forze per controllare l’intero paese. In Sudan, paese già da tempo piuttosto lontano dagli interessi britannici e francesi – ha invece importanti legami economici con Cina, Arabia Saudita e Turchia – la guerra non gioca a favore di Mosca, che poco prima dello scoppio delle ostilità aveva raggiunto un accordo con il governo di Khartoum per la costruzione di una base navale nel paese, un importantissimo sbocco sul mare caldo a poche miglia nautiche dalle strettoie di Suez e Bab El-Mandeb, fondamentali per gli spostamenti globali di merci e naviglio militare.

La visione strategica russa sembrerebbe quindi quella di creare una fascia di paesi alleati – con perno nella Repubblica Centroafricana – che congiunga i due oceani, e separi fisicamente il Mediterraneo dalle ricchezze naturali dell’Africa centrale e meridionale, ma anche dai flussi migratori che dal continente si muovono verso nord.

In parte una lezione imparata dalla Turchia che, controllando la “rotta balcanica” (e la guardia costiera libica) è in grado di esercitare un notevole grado di influenza sull’Unione Europea. Tattica mutuata anche dalla Bielorussia nel suo braccio di ferro con la Polonia.

In parte una lezione imparata dal caso Nord Stream: come il controllo del Baltico e dell'”Intermarium” ha permesso a Washington di tagliare (o più precisamente, ridurre) i legami energetici tra Russia e Unione Europea – anche fisicamente, con il sabotaggio di Nord Stream – così una forte influenza sul Sahel e una presenza navale vicino agli stretti di Suez e Gibilterra potrebbero garantire al Cremlino una simile influenza sui paesi dell’Unione, ricreando a sud quella simbiosi che è stata rotta ad est.

Al centro di questi sviluppi c’è un paese che vuole puntare molto sull’Africa come nuova fonte di energia e sviluppo – andato in crisi il modello precedente – che vede nel “riorientamento a sud” delle catene di approvvigionamento un’opportunità unica e che, ultimo ma non meno importante, compete senza esclusione di colpi (ultimamente sferrati solo da una delle due parti) con la Francia in questa regione sin dalla sua fondazione: quel paese è l’Italia.

Una mappa degli schieramenti in Africa. Il Gabon è erroneamente identificato nel Congo-Brazzavile
Una mappa degli schieramenti in Africa. Il Gabon è erroneamente identificato nel Congo-Brazzavile

UN NUOVO MATTEISMO?

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Ai più attenti non dev’essere sfuggito come l’atteggiamento di Roma nei confronti della violenta disgregazione della Francafrique sia stato marcatamente diverso da quello di Parigi.

Si pensi al fatto che i militari italiani sono rimasti in Mali anche dopo che la nuova giunta militare aveva ritenuto “non gradito” il contingente ONU a guida francese, e che tutt’ora quello italiano sia pressoché l’unico rimasto nel paese della missione “di addestramento” formalmente sotto l’egida dell’Unione Europea. Nel paese africano il contingente italiano è schierato in supporto delle forze governative, operando di fatto in parallelo con il Gruppo Wagner, che non ha cessato le operazioni dopo la prematura dipartita del suo intero gruppo dirigente nei cieli russi.

Anche in Niger rimane un contingente italiano di – si dice – circa 300 uomini. E la giunta salita al potere – mentre il primo ministro deposto si trovava a Roma – proveniente dalle forze armate che i nostri soldati hanno contribuito ad addestrare, non ha promulgato nessun ordine di espulsione nei confronti delle nostre forze, non ha dichiarato persona non grata il nostro ambasciatore, come ha invece fatto nei confronti delle rappresentanze militari e diplomatiche francesi.

E’ molto interessante in questo senso l’intervista del ministro degli esteri Antonio Tajani rilasciata a Repubblica, dove viene confermata la missione militare nel paese, viene negato il coinvolgimento russo nel golpe – ritenuto “principalmente in chiave anti-francese” – condannata ogni opzione di intervento armato e negata la possibilità di fermare il flusso di aiuti economici verso Niamey, che invece altri paesi europei hanno sospeso.

Altrettanto quella del Ministro della Difesa a Rai News, in cui avverte i francesi – in risposta alle credibili indiscrezioni riguardo la possibilità di un intervento armato di Parigi con alleati locali – di non “giocare ai pistoleri nel saloon in quella parte di Africa” e sostiene che il compito principale degli europei sia “gettare acqua sul fuoco“.

Perché un incendio in quella regione per l’Italia sarebbe disastroso, forse anche superando in effetti negativi l’invasione della Libia del 2011. L’aspetto migratorio, per quanto destabilizzante, sarebbe forse quello meno distruttivo.

La vera posta in gioco si chiama “Pipeline Trans-Sahariana” – un progetto immaginato all’inizio del secolo e notevolmente accelerato negli ultimi anni – che mira a congiungere con un gasdotto Nigeria e Algeria attraverso il Niger. In cui l’Italia ha un interesse fondamentale, essendo l’Algeria ormai il principale partner energetico di Roma – nonché un alleato geopolitico in chiave antifrancese – ed avendo ENI investito pesantemente nel settore energetico sia nigeriano, che in quello angolano che potrebbe ugualmente beneficiare del progetto.

Roma non può permettere che il tubo – che raccoglierebbe il gas dell’Africa sub-sahariana per smistarlo in Europa, con hub naturale la penisola – venga interrotto ancora prima di essere costruito, o che un fondamentale paese di transito come il Niger diventi ostile. Deve mantenere la sua presenza nella regione, anche a costo di antagonizzare ulteriormente la Francia.
Questo permetterebbe inoltre un maggiore controllo sui flussi migratori, tramite una presenza sul luogo che – dal tempo degli “Accordi Minniti” – si è sempre dimostrata il metodo più efficace per contrastare l’immigrazione clandestina prima che travolga l’Italia, con un impatto devastante su comunità come Lampedusa.

La Pipeline Trans Sahariana
La Pipeline Trans Sahariana

E’ addirittura possibile che, in un’era di rinnovata competizione tra grandi potenze, Washington scelga di sostenere Roma a scapito di Parigi, ricreando le condizioni presenti ai tempi del “matteismo” negli anni ’60.

In sostanza, gli strateghi statunitensi potrebbero valutare – e c’è ragione di credere che lo stiano facendo, se si analizzano le reazioni pubbliche ai golpe africani degli ultimi anni – di preferire, alle battaglie di retroguardia anglofrancesi dal sapore coloniale – politicamente perdenti e destinate a consegnare mani e piedi la regione a Russia e Cina – la penetrazione di un’Italia uscita dalla seconda guerra mondiale “con le mani nette” dal fardello coloniale, che è stata in grado di sfruttare positivamente la decolonizzazione, generalmente benvoluta sia nel Maghreb che nel Sahel e nell’Africa Sub-Sahariana. Un’Italia che – semplicemente perseguendo il proprio interesse nazionale – conseguirebbe per Washington l’obiettivo di tenere un piede nella porta di una regione dove sta senza dubbio perdendo la competizione geopolitica. Per l’appunto, le stesse fortunate condizioni che si crearono dopo la crisi di Suez del ’56, e giocarono un ruolo non indifferente nello straordinario sviluppo economico che investì l’Italia tra gli anni ’60 e gli anni ’80.

Certamente, questo richiederebbe un governo – anzi, un sistema-paese – intenzionato ad agire in modo deciso, talvolta anche spregiudicato: è inutile parlare di “Piano Mattei” se non si ricorda chi è stato ad assassinare brutalmente Enrico Mattei (e ad abbattere l’Itavia 870 a Ustica) e perché. Bisogna quindi conoscere quali siano le minacce all’interesse dell’Italia – e di quasi tutta l’Europa – in Africa e, soprattutto, agire per prevenirle, come colpevolmente non fece il governo Berlusconi in Libia.

Non aiuta un certo tipo di analisi che si ostina a parlare di “Occidente” in retrocessione in Africa – se ne trova un esempio nell’ultimo numero di “Domino”, di Dario Fabbri – dimenticando che da quando lo spazio africano è stato definitivamente “riempito” dagli europei alla fine dell’800, gli “occidentali” prevalentemente ci si sono fatti la guerra, piuttosto che collaborarvi: sono state combattute due guerre mondiali tra “occidentali” (anche) per la questione coloniale. E che i conflitti sono continuati anche dopo l’integrazione politico-economica delle ex potenze coloniali sotto l’egida americana, che a fine anni ’80 – tanto per fare un esempio – al confine tra Libia e Ciad combattevano piloti italiani contro ufficiali francesi. Che 30 anni dopo i proxy francesi in Libia bombardavano gli stabilimenti ENI.

Antifrancese NON significa antieuropeo. Italia, Spagna, Germania… Russia, sono paesi europei che in Africa non hanno nessun problema, ma anzi molte opportunità.

A ben vedere, a retrocedere in Africa non è un generico e fumoso “Occidente”, bensì una ben precisa ex-potenza coloniale che nel continente si è sempre trovata – dallo “schiaffo di Tunisi” del 1881 – in opposizione agli interessi di Roma. Per il momento non l’Italia, che invece ogni anno sigla nuovi accordi energetici e commerciali multi-miliardari dall’Egitto all’Angola passando per l’Etiopia. A beneficio di pressoché tutti gli altri stati membri dell’UE.

E’ importante tenerlo a mente, per evitare di ingoiare polpette avvelenate – come spesso è avvenuto negli ultimi anni – come task force italo-francesi e “trattati del Quirinale“, addolcite da operazioni commerciali come la cessione estremamente interessata – mediata direttamente dall’Eliseo – della logistica di Bollorè in Africa Occidentale al gruppo italo-svizzero MSC.

Deve mutare completamente la prospettiva: comunque la si pensi sui nuovi regimi africani (come se quelli prima fossero invidiabili) bisogna riconoscere che in Africa per l’Italia le prospettive stanno migliorando, non peggiorando, e che le opportunità di cui godiamo potrebbero non essere ostacolate – per motivi diversi – né da Washington, né da Mosca, né da Pechino.

L'”unico” (si fa per dire) rischio – da evitare a tutti i costi – è quello di una guerra, motivo per cui Roma sta giustamente tentando di abbassare la tensione. La domanda cruciale è: ne sarà in grado?

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