La situazione attuale della Turchia ricorda non poco quella dell’Italia allo scoppio della Grande Guerra.
La Turchia erdoganiana è – come era il Regno d’Italia – una potenza emergente, affamata.
E’ nella posizione geografica perfetta per influire sul conflitto in corso in maniera decisiva: Il Sultano Erdogan, dallo Stretto dei Dardanelli, guarda la Crimea e vede ad est il Caucaso russo, ad ovest la costa ucraina.
Come l’Italia liberale del 1914, la Turchia oggi segue una politica ambigua, una vera e propria politica dei giri di valzer, volta a massimizzare il proprio prestigio internazionale ed ottenere il massimo da entrambe le parti. Vende sistemi d’arma all’Ucraina, ma aumenta l’interscambio con la Russia, utilizzando sistemi di pagamento alternativi per evadere le sanzioni euro-americane, a cui serenamente dichiara che non aderirà. Acconsente (in principio, con condizioni) all’allargamento della NATO a Svezia e Finlandia, ma sgomita per essere ammessa nello SCO, in qualità di invitata speciale al vertice di Samarcanda. Ospita incontri bilaterali Russia – Ucraina, scambi di prigionieri. E poi chiude gli stretti… sia alla NATO che alla Russia. Di fatto dichiara neutralità.
Una politica del pendolo tipicamente levantina, di cui Giolitti e Orlando si sarebbero compiaciuti.
Come ben sappiamo, l’Italia dopo un anno decise di entrare in guerra al fianco delle potenze dell’Intesa, contro il recentemente infido alleato (si pensi che Von Hotzendorf, comandante in capo delle forze austriache, durante il terremoto di Messina del 1908 propose di invadere il nord Italia) e antico dominatore, in quella che alcuni – correttamente, penso – definiscono come l’ultima guerra risorgimentale.
La Turchia del 2022 cosa deciderà di fare? Rimarrà non belligerante, godendo degli evidenti vantaggi della neutralità e del suo ruolo da mediatore, o vorrà sfruttare l’occasione storica per avanzare il suo disegno geopolitico con la forza, in una delle regioni ad essa confinanti? E’ una domanda che, come tutte le grandi domande geo-strategiche, ci è più utile per riflettere, per capire, che non per trovare risposte immediate.

PKK, IRAQ E SIRIA. L’OFFENSIVA CHE NON FU
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Quando Erdogan iniziò le trattative per acconsentire all’ingresso di Finlandia e Svezia nella NATO, in molti pensammo che un via libera ad ulteriori operazioni contro i separatisti curdi di Siria e Iraq fosse tra le condizioni richieste. In effetti è probabile che questo via libera ci sia stato, e un’operazione in profondità nel kurdistan iracheno – l’ennesima – è già attiva da fine aprile (nella nostra totale indifferenza) pochi giorni prima dell'”ultimatum” di Erdogan alla NATO. Però, per il momento, non abbiamo visto la tanto attesa prosecuzione dell’operazione “Ramo d’Oliva” nel nord della Siria.
Perché? I motivi possono essere molteplici, e comprendere verosimilmente un veto russo, ma ve ne sono anche alcuni di carattere interno, piuttosto importanti.
La situazione dell’economia turca è nota, e non è tra le migliori. Con un’inflazione al 100%, è facile intendere perché Erdogan ci stia pensando due volte prima di intraprendere un’avventura militare.
Ma non solo. In Turchia ci saranno le elezioni presidenziali a giugno (Erdogan è eletto tramite regolari elezioni, un fatto che molti ignorano) e gli interventi in Siria hanno una caratteristica particolare: Generano migranti. Decine, centinaia di migliaia di migranti. Nonostante Idleb, di fatto un protettorato turco in Siria, governato da successori di Al-Qaeda, venga usata come una sorta di “anticamera”.
A latere di ogni considerazione sul loro uso a scopo quasi-bellico ai confini dell’Unione Europea – proprio su questo blog parlavamo di “metodo Erdogan” – i migranti siriani, sono un problema assai reale per l’economia e l’ordine pubblico turco. Un problema molto politico, come dall’altra parte dei Dardanelli.
La possibilità di una nuova offensiva turca nel kurdistan siriano esiste, ma almeno per il momento Erdogan ha valutato che i costi superano i benefici. O che sia proprio impossibile da realizzare.
REGOLAMENTO DI CONTI CON L’ARMENIA
Un’altra possibilità è quella che avevamo ventilato nell’ultimo post: Quella di un impegno militare turco nel Caucaso. Nella fattispecie, un attacco all’Armenia.
Il Caucaso è una regione in cui il Cremlino è strategicamente paralizzato, in cui reagisce agli eventi – con il minimo impegno possibile – piuttosto che crearli.
L’Armenia – il cui stato moderno fu fondato proprio all’indomani di un genocidio perpetrato dalle truppe turco/ottomane durante la prima guerra mondiale – è impegnata in un conflitto mai risolto, più volte diventato caldo, con l’Azerbaijan, il più importante alleato turco nella regione.
Le ultime avvisaglie di guerra, durante cui un parlamentare turco (di opposizione, va precisato) ha affermato che la Turchia possa “cancellare l’Armenia” dalle carte geografiche, e una base dell’FSB russo è stata colpita dall’artiglieria azera, potevano far pensare ad un’involuzione della crisi, che comprendesse un intervento turco – ma anche iraniano – nel conflitto.
Per ora però nulla si è mosso, e anzi, sembra si sia arrivati ad una svolta decisiva per la pacificazione del conflitto, quantomeno dal punto di vista simbolico: Erdogan, Pashinian (primo ministro armeno) e Aliyev (presidente azero) si sono incontrati a Praga. Obiettivo la normalizzazione delle relazioni tra Ankara e Yerevan, che deve avvenire di pari passo con una pace tra Yerevan e Baku.
L’incontro di Praga è in realtà il coronamento di un processo iniziato a gennaio di quest’anno, quando due rappresentanti speciali di Armenia e Turchia si sono incontrati a Mosca per la prima volta. Al primo sono seguiti altri incontri, fino ad arrivare ad un bilaterale tra i due ministri degli esteri, a marzo, e ad una telefonata Erdogan-Pashinian a luglio. Oggi a Praga l’incontro faccia a faccia.
Le cose quindi si stanno muovendo, ed Erdogan è attivo in prima persona: Anche a Samarcanda, è significativo evidenziare il trilaterale a porte chiuse tra Putin, il primo ministro iraniano Raisi ed Erdogan. Sicuramente si sarà parlato anche di Caucaso.
Erdogan quindi, quantomeno all’apparenza, sembra preferire la riconciliazione con l’Armenia all’escalation. La rimozione di un conflitto con la Russia piuttosto che l’inizio di un conflitto di portata regionale e forse anche globale, come sarebbe una guerra nel Caucaso adesso.
Questo è il messaggio che arriva da Praga. E un raffreddamento del conflitto Armenia-Azerbaijan è sicuramente gradito anche a Mosca e Tehran, che al momento hanno altri problemi ben più grossi da risolvere, e non riuscirebbero ad intervenire con successo a favore dei propri interessi strategici.

MAVI VATAN
Resta però un fronte caldo per la Turchia, che ancora non abbiamo esplorato.
E’ il fronte dell’Egeo, in cui Istanbul si scontra con Atene sin dall’indipendenza di quest’ultima.
Durante il declino dell’Impero Ottomano, il controllo della Sublime Porta su questa regione marittima si sgretola pezzo dopo pezzo; come avviene parallelamente in altre aeree dell’Impero. Anche per mano italiana, con l’occupazione del Dodecanneso dopo l’impresa di Libia del 1911, sancita dal trattato di Ouchy. Il Dodecanneso verrà sottratto al controllo italiano, ma non tornerà mai alla Turchia. Dopo l’occupazione britannica passerà alla Grecia, paese posto sotto la tutela di Londra dagli accordi formali e informali che regolano l’ordine europeo post-seconda guerra mondiale.
Vi è poi la questione di Cipro, isola che passa dalla sovranità ottomana all’essere una colonia britannica, poi uno stato indipendente. Nel 1974, il regime dei colonnelli greci favorirà un colpo di stato sull’isola, con l’obiettivo ultimo di annetterla alla Grecia. La Turchia reagirà invadendo a favore della popolazione turca nel nord dell’isola, e il conflitto si congelerà su una linea di controllo che rimane ancora oggi, in una sorta di vecchia edizione su piccola scala degli eventi dell’euromaidan.
E ancora, vi sono altre isole come Samos – meta popolarissima per i turisti italiani – prese dalla Grecia durante le guerre balcaniche del 1912-1913.
In generale, possiamo dire che la sovranità turca sull’egeo smetta definitivamente di retrocedere all’inizio degli anni ’20, con la guerra d’indipendenza turca che mette fine al tentativo greco, britannico, italiano e francese di prendere il controllo degli stretti e di buona parte dell’anatolia occidentale. Il 1974 è l’anno del primo tentativo – parzialmente andato a buon fine – di reazione. Successivamente, in particolar modo dopo la fine dei governi kemalisti e militari a cavallo del nuovo millennio, con la democratizzazione e il conseguente accesso della Fratellanza Mussulmana (Erdogan) al governo, iniziano a farsi strada ipotesi revansciste.
Possiamo riassumerle con il termine “Mavi Vatan” – Patria Blu coniato dall’ammiraglio Cem Gurdeniz, e fatto proprio da Erdogan nella definizione della dottrina geopolitica turca.
L’obiettivo, a grandi linee, è quello di aumentare il controllo turco sul mediterraneo orientale, un tempo un lago ottomano. Le azioni intraprese da Ankara in questa direzione sono già visibili: Si pensi alla Libia, dove la Turchia è stata di gran lunga l’attore più attivo e influente post-2011 (per certi versi a beneficio, per altri a sfavore dell’Italia). O alla disputa sui depositi petroliferi e di gas naturale al largo di Cipro, che la marina turca presidia regolarmente per scongiurarne l’esplorazione da parte di compagnie accordatesi con il governo greco-cipriota (l’unico riconosciuto internazionalmente) come ENI.
“POSSIAMO ARRIVARE ALL’IMPROVVISO, DI NOTTE”
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Queste le parole di Erdogan a inizio settembre, riguardo la “militarizzazione” delle isole dell’egeo da parte di Atene, che secondo la posizione ufficiale di Ankara viola i trattati di Losanna e di Parigi (La Grecia si difende in modo piuttosto curioso, affermando che la promessa di demilitarizzare il Dodecanneso fatta nel 1947 fosse rivolta all’Italia, non alla Turchia.).
Nella stessa occasione, Erdogan ha accusato la Grecia di essere infedele alla NATO, evidenziando il suo uso di sistemi antiaerei russi S-300, come a volersi guadagnare l’appoggio dei comuni alleati nel caso in cui il conflitto diventasse caldo.
La posizione dei principali attori della NATO, però, è abbastanza chiara: Gli USA hanno dichiarato che la sovranità sulle isole greche nell’egeo “non è in discussione” e la Francia ha siglato un trattato di mutua difesa (più stringente nel linguaggio rispetto all’art 5 del patto atlantico) e cooperazione militare con la Grecia nel 2021 – riprendendo gli schemi di 100 anni prima – in un’ottica di generale inimicizia con Ankara che ha il suo punto focale in Libia, dove l’Esercito Nazionale Libico di Haftar, il protetto francese, è stato fermato alle porte di Tripoli proprio dall’aviazione turca.
E’ quindi probabile che un’invasione turca di alcune o tutte le isole dell’Egeo rivendicate da Ankara si trasformi in un conflitto non solo con la Grecia, la cui capacità di difesa non è comunque trascurabile, ma anche con alcuni paesi della NATO, a diversi gradi di intensità.
Vien da se che, aldilà della retorica pre-elettorale, Erdogan debba stare molto attento alle sue mosse nell’Egeo.
Una possibile via per evitare il conflitto diretto con gli alleati della Grecia potrebbe essere un’escalation a Cipro, dove la situazione è molto più “ibrida”. Da segnalare in quest’area alcune notizie passate in sordina. La rimozione dell’embargo di armi nei confronti del governo greco-cipriota, da parte degli Stati Uniti – a metà settembre – e l’ultimatum del governo turco-cipriota ai peacekeeper ONU il 5 ottobre: “Avete un mese di tempo per riconoscere la Repubblica Turca di Cipro del Nord, o ve ne dovrete andare“. Si parla anche della possibile costruzione di una base militare turca nell’isola, naturalmente rifornita di droni Baraktyar.
In ogni caso, però, la Turchia non ha una facile vittoria a portata di mano, nell’Egeo, bloccata com’è dalla sua difficile situazione economica, dalla preparazione greca così come dalla rete di alleanze che Atene ha saputo costruire.

… O FELICE NEUTRALITA’
La Turchia ha potenzialità demografiche e militari, ha un passato glorioso da “restaurare” e si sente molto più piccola di quanto le spetti.
Forse ha qualcosa da imparare dal Regno d’Italia, che ottenne i suoi maggiori successi (Libia ed Etiopia) guardando ad entrambi gli schieramenti di superpotenze presenti in Europa, ed ottenendo il loro benestare. O dalla Repubblica Italiana, il cui periodo d’oro dal punto di vista economico coincide con la dottrina “neo-atlantista” (collocazione nella NATO, ma se serve sponde con l’URSS o politica estera autonoma in medioriente) tracciata da Mattei, Gronchi, Fanfani, Moro. Che non ha avuto un’esperienza molto felice seguendo acriticamente alleanze rigide, ne quando seguì la Germania in guerra nel ’40 nonostante la ben riconosciuta impreparazione militare – perdendo quasi tutte le posizioni faticosamente conquistate negli 80 anni precedenti – ne quando ha scelto di seguire il disegno egemonico angloamericano post-1991, muovendo guerra ai principali partner energetici e seminando caos in tutte le sue terre di confine, dai balcani alla Libia. Con l’unica eccezione della vittoria del 1918, pur mutilata – oltreché dalla resistenza turca – dalla mancata difesa dell’accordo di Londra da parte di inglesi e francesi, a fronte dell’intervento “a gamba tesa” di Woodrow Wilson alla conferenza di Versailles.
E’ evidente a tutti l’attivismo turco in politica estera, aumentato ancora di più dopo l’inizio dell'”Operazione Militare Speciale” russa in Ucraina. Tutti vogliono parlare con Erdogan (alcuni anche mettendosi in ridicolo) ed Erdogan è ben contento di farlo. Ad un trilaterale con Iran e Russia segue una visita di più giorni a New York, e poi uno storico incontro con i capi del governo armeno e azero.
Che Erdogan stia cercando di arrivare alla situazione in cui si trovava l’Italia nel 1911 o (in modo meno perfetto, con i patti Mussolini-Laval) nel 1935? Un facile obiettivo militare, da perseguire senza scontrarsi direttamente con potenze più grosse. E’ possibile.
Non è però detto che ci riesca, tra le mille difficoltà associate ad una nuova sortita nel pantano siriano, la tutela russa sull’Armenia e quella franco-americana su Grecia e Cipro.
Piuttosto che imbarcarsi in avventure militari potenzialmente disastrose, farebbe meglio a continuare a godere del suo ruolo naturale di mediatore, mitigando la crisi economica grazie alla sua necessità per entrambe le parti nel conflitto. E forse, chi lo sa, riuscendo anche ad ottenere importanti vittorie dal punto di vista geopolitico (una soluzione del conflitto cipriota, o un assorbimento del kurdistan siriano nella repubblica araba) senza dover neanche combattere.
Abbiamo però imparato che i calcoli strategici, fatti dall’esterno, non sono gli stessi di quelli fatti dall’interno, con tutte le informazioni in più (veritiere o meno che siano) le convinzioni e gli interessi che influenzano il processo decisionale di una cancelleria.
Medio Oriente, Caucaso ed Egeo, restano quindi possibili scenari di conflitto.
17 pensieri riguardo “La Turchia sgomita. Che lezioni può trarre dall’Italia?”