Stalin, un grande stratega?

Torniamo ancora sulla questione della razionalizzazione degli imperi, dopo aver esaminato i due cicli americani (1968-1975, 2016-) quello lungo e doloroso dell’impero romano e gli errori commessi dal sovrano francese Luigi XIV.

Questa volta per occuparci di Joseph Vissarionovich Jugashvili – noto ai più come Stalin – un vero esperto della razionalizzazione dei confini e della potenza.

Gli anni dell’URSS di Stalin sono peraltro un caso molto interessante.
Dal punto di vista geopolitico, la rivoluzione bolscevica assume i connotati di una vera e propria reazione nucleare nel cuore dell’Eurasia, e quindi – per parafrasare Mackinder – nel cuore del mondo.

Nessuno sa quanto sarà grande l’esplosione, il mondo è immediatamente spaccato tra chi ne ha una paura viscerale, e chi la ritiene un grande ed inevitabile passo in avanti per l’umanità.

Sta agli “scienziati” che l’hanno innescata – Lenin, Trotzky, Stalin, Bukharin e molti altri – decidere come gestirla, quale portata e quali applicazioni dovrà avere.

I bolscevichi si trovano in mano – quasi dall’oggi al domani – una grande potenza (sia materiale che immateriale) dai confini ancora tutti da decidere e dalle caratteristiche ancora in via di definizione, una condizione quasi senza precedenti nella storia umana. Hanno di fatto carta bianca, essendo un “potere costituente” di slegato dalle viscosità burocratiche, corporative e tradizionali che solitamente imbrigliano una potenza. Non esistono – inizialmente – neanche evidenti limiti territoriali al potere dei soviet, un’ideologia globale applicabile – nella mente dei suoi teorici – nell’Impero Russo come in ogni altro angolo del mondo.

La figura principale, che plasmerà la “potenza grezza” della rivoluzione bolscevica in un coerente e razionale impero di portata globale sarà proprio Stalin, diventato una figura di spicco della dirigenza comunista già prima della morte di Lenin (1924) e poi, gradualmente, unico e indiscutibile sovrano – nel senso letterale del termine – dell’Unione Sovietica, fino alla sua morte nel 1953.

Dietro la figura del despota paranoico, del repressore sanguinario di ogni minima opposizione (ma spesso e volentieri anche di alleati ed ignari “passanti”) passata alla storia, si nasconde anche un grande stratega, le cui decisioni vanno certamente studiate in quanto lezione magistrale su come si costruisca e si mantenga in vita un impero.

Non è un caso che in Unione Sovietica, dopo la condanna del culto della personalità e dei peggiori eccessi della repressione caratteristici dell’epoca di Kruschev, si sia gradualmente riabilitata la sua figura sotto Brezhnev, e che in Russia e nello spazio post-sovietico – dopo il 1991, questo potrà scioccare alcuni – il bilancio generale dell’operato di Stalin sia diventato sempre più positivo.

Più si allontana una figura storica, più il giudizio su di essa risente dell’aspetto “geopolitico” del suo operato – che plasma permanentemente la potenza e i confini di una nazione – rispetto a quello “interno”, che gradualmente viene “contestualizzato”, messo in secondo piano e perde i suoi più accesi connotati politici.

Una statua di Stalin a Gori, in Georgia. Nella terra natale di Joseph VIssarionovich, il 66% dei georgiani crede che “un georgiano patriottico debba essere fiero che Stalin fosse georgiano

IL SOCIALISMO IN UN SOLO PAESE

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L’opera razionalizzatrice di Stalin inizia prima della morte di Lenin, nella diatriba sulla nuova “costituzione” di cui lo stato sovietico dovrebbe dotarsi, vinta la guerra civile.

Uno dei nodi principali è quello della “questione nazionale”: quanto peso dovranno avere le varie nazionalità dell’ex impero russo nella nuova costruzione statale? In questa diatriba Lenin e Bukharin si posizionano su un modello federale spinto, con diritto di secessione, presidenza a rotazione tra le nazionalità ed un ampio grado di sovranità per ogni repubblica socialista. La ratio di questa impostazione è quella di un’impero “aperto” ad ogni altra repubblica che desidererà accedervi, nell’ottica di una rivoluzione socialista che – pensano – investirà larghe porzioni dell’Eurasia.

Stalin non è della stessa idea. Propone invece una costruzione statale altamente centralizzata, senza diritto di secessione e senza criteri “etnici” ai vertici politici. Quella staliniana è una costruzione più chiusa, che difficilmente riuscirà ad attrarre ed assorbire nuove repubbliche – di fatto delimitata ai confini dell’ex impero russo – ma anche per questo più solida, più resistente a spinte centripete e a minacce esterne.

La dirigenza bolscevica deve compiere una scelta: un impero potenzialmente globale ma più fragile, o uno territorialmente delimitato ma più solido? Dagli scontri interni al partito, nella “costituzione di Lenin” del 1924 emergerà una via mediana, che – sebbene consenta un certo, del tutto inedito, grado di sovranità ed identità nazionale a molti popoli dell’impero russo, senza il quale certamente alcune repubbliche post-sovietiche non esisterebbero nella loro forma attuale – premia la linea di Stalin sulle due questioni più importanti: la centralizzazione dello stato – Lenin si opponeva persino ad un sistema di trasporti centralizzato – e la presidenza del comitato centrale, che non viene affidata a rotazione alle nazionalità, relegate invece nella seconda camera, il “soviet delle nazionalità”.

E’ sintomatica anche la scelta del nome: invece del – molto ambizioso, prediletto da Lenin – “Unione delle Repubbliche Sovietiche di Europa e Asia” si opta per il più sobrio “Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche“.

Dopo la morte di Lenin, Stalin riuscirà invece ad imporsi – e non ci sarebbe riuscito, in questo stadio, se la sua linea non fosse stata approvata dalla maggioranza dei vertici del partito – su un’avversario ancora più radicale nell'”espansionismo” della rivoluzione, quale è Leon Trotzky. La sua fine, segnata dall’eliminazione in Messico da parte di un agente dell’NKVD e dalla damnatio memoriae – con tanto di cancellazione postuma dalle foto ufficiali – è nota a tutti.

Con quest’ultima sfida interna al partito – dopo la quale Stalin godrà di un predominio pressoché assoluto – si impone definitivamente la dottrina staliniana sulla forma dello stato sovietico: il socialismo in un solo paese, costruito da un partito comunista unitario e da un’autorità fortemente centralizzata, in grado di mobilitare risorse in ogni angolo dell’Unione secondo le priorità stabilite da Mosca.

Smorzato lo slancio della rivoluzione mondiale, inizia la costruzione di uno stato solido con confini ben definiti (anche in potenza, le aeree che sono state parte dell’impero russo prima di Brest-Litovsk) e che forse proprio per questo sarà in grado di normalizzarsi all’interno dell’arena internazionale, e ad intessere i primi accordi – l’Italia fascista sarà il primo stato a riconoscere l’URSS nel 1924 – in grado di garantire la sicurezza, ma anche l’espansione, del neonato impero sovietico.

Stalin, Lenin, Trotzky
Stalin, Lenin, Kalinin

IL TRIPOLARISMO IN EUROPA E LA GUERRA

Consigli di lettura di Inimicizie

Già prima della salita di Hitler e dell’NSDAP al potere in Germania, diventa chiaro che il Reich, sconfitto e umiliato ma non occupato, sia destinato a tornare un polo di potenza determinante in Europa, alla testa di una coorte di potenze revisioniste (come l’Ungheria) o potenzialmente tali (Italia, URSS). Resta solo da capire quanto aggressivo sarà questo revisionismo: inizialmente quello risoluto ma moderato del cancelliere Stresemann – incalzato dall’aristocrazia militare attiva nello scenario politico – in seguito quello estremamente aggressivo e senza limiti di Hitler, tendente all’egemonia eurasiatica.

Con il rafforzamento militare della Germania (coltivato dall’URSS dagli Accordi di Rapallo del 1922) e l’industrializzazione a rotta di collo dell’Unione Sovietica dopo la fine della guerra civile, in Europa si forma un tripolarismo: URSS, Germania, alleanza anglo-francese. Come ci insegna il rinomato politologo Kenneth Waltz – e come dimostra questo esempio storico – i tripolarismi sono sempre instabili: l’incentivo per ciascuna delle parti è di accordarsi con una delle altre due per spartirsi la terza.

La pressione per intessere alleanze e guadagnare alleati minori è altissima, e tutti gli attori lavorano in tal senso. L’Unione Sovietica di Stalin – come avevamo detto – investe sul rafforzamento della Germania, ma esplora anche la possibilità di un’alleanza con l’Intesa: questa possibilità raggiunge il suo apice nel 1934, quando il ministro degli esteri francese Louis Barthou negozia l’entrata dell’URSS nella Società delle Nazioni ed una garanzia militare per i suoi confini europei. L’accordo naufraga proprio a causa della morte di Barthou, ucciso in un attentato a Marsiglia pianificato dagli Ustascia croati – che si avvicinano sempre di più alla Germania nazista – in cui morirà anche Re Alessandro di Yugoslavia.

Dove la competizione tripolare si consuma nel modo più acceso è proprio in quella “fascia” centrale dell’Europa individuata da Mackinder dopo la prima guerra mondiale come la chiave per il controllo dell’Eurasia.
Le dinamiche sono esattamente quelle descritte dal geografo scozzese: URSS e Germania oscillano tra competizione e collaborazione nell’estendere la loro influenza nella regione, britannici e francesi cercano di incunearsi per escludere entrambe. In questo caso il miope massimalismo wilsoniano – ben lontano dalla dichiarata “autodeterminazione dei popoli” – a Versailles darà un forte contributo alla degenerazione verso la più grande tragedia europea: Polonia, Cecoslovacchia e Romania (i cardini dell’intermarium su cui ancora oggi le potenze anglosassoni imperniano la propria politica europea) sono artificialmente più grandi dei loro confini “etnici”, rendendo quasi inevitabili – a prescindere dalle dottrine razziali ed espansionistiche del nazismo, che sicuramente puntavano ben oltre la “grande Germania” – i revisionismi tedeschi, ungheresi, bulgari… e sovietici. Fornendo quindi molte sponde ai disegni espansionistici di Berlino, che – con confini europei disegnati in maniera più oculata – si sarebbe trovata davanti un fronte anti-revisionista più compatto.

In questo contesto, lo storico Roj Medvedev riconosce a Stalin il pragmatismo di abbandonare l’ortodossia ideologica per rispolverare un potente strumento di influenza in est Europa, e quindi di sicurezza: il nazionalismo, che era stato ferocemente represso fino all’inizio degli anni ’30.
Se l’ideologia comunista non era sufficiente a preparare il popolo sovietico alla guerra, diventava necessario impiegare sentimenti più ancestrali. Naturalmente il nazionalismo che si incentivò maggiormente fu quello russo, con la “riabilitazione”, nelle ricorrenze, nella letteratura e nel cinema dei vecchi eroi come Nevskij, Suvorov, Kutuzov e la reintroduzione dei gradi militari, degli esprit de corps dell’epoca zarista. Anche altri eroi nazionali però – principalmente bielorussi e ucraini – furono riabilitati, sostiene l’Autore.

Addirittura nel 1943, fu pienamente legalizzato il Patriarcato di Mosca (a differenza della chiesa cattolica, dell’ebraismo e dell’islam) in ottica sia di “unificazione” interna che di influenza da proiettare nei territori che l’Armata Rossa stava gradualmente strappando al controllo della Wehrmacht. Viene sciolto il COMINTERN, per garantire una cooperazione più serena con gli alleati occidentali. L’ideologia comunista viene ampiamente sacrificata in nome della sicurezza e della potenza dello stato.

Truppe sovietiche marciano in una Kiev completamente distrutta dopo la sua liberazione, 1943
Truppe sovietiche marciano in una Kiev completamente distrutta dopo la sua liberazione, 1943

Tornando però al periodo prebellico, nel 1939 arriva finalmente la decisione.

Preso atto che la Germania attaccherà la Polonia, Mosca si trova davanti ad un bivio: combattere subito a fianco dell’Intesa e della Polonia contro la Germania, o accordarsi con essa per spartire la Polonia e l’est Europa? La terza opzione è quella da scongiurare in ogni modo: non fare niente ed aspettare che le armate di Hitler proseguano verso est, con silenzioso placet degli anglofrancesi.

La prima scelta è resa poco appetibile dalla scarsa preparazione bellica sovietica (causata dalla dispendiosa guerra d’inverno contro la Finlandia e dal conflitto del Khalkin Gol con il Giappone, nonché dalla decimazione degli ufficiali sovietici nelle purghe) dall’ambiguo atteggiamento anglofrancese nei confronti della Polonia, nonché dalla Polonia stessa, che (comprensibilmente) rifiuta categoricamente di far entrare truppe sovietiche nel suo territorio.

Nasce così il patto Molotov-Ribbentrop, che ha due obiettivi ben precisi: per la Germania poter combattere la guerra contro gli anglofrancesi con le spalle coperte, per l’URSS espandere la propria influenza nell’est Europa e scongiurare un’intesa anglo-tedesca. Con questo patto, Stalin mette centinaia di chilometri e milioni di uomini in più tra la Wehrmacht e Mosca, oltre ad assicurarsi che la Germania combatta prima contro le potenze occidentali, indebolendosi.

Come oggi ben sappiamo, Hitler non aveva alcun dubbio sul fatto che l’intesa fosse meramente una tattica volta a posticipare la guerra con l’Unione Sovietica, barattando tempo per territorio. Non si può dire lo stesso di Stalin, né secondo i fratelli Medvedev né secondo molti altri storici. Nonostante i ripetuti avvertimenti dei servizi sovietici – che conoscevano già le intenzioni di Hitler a inizio 1941 – Stalin rimaneva stranamente ottimista, causando irritazione e panico nella dirigenza sovietica. Fino agli ultimi giorni – pur mettendo l’Armata Rossa in stato di massima allerta e facendo tutti i preparativi del caso – era convinto di poter dissuadere i tedeschi dall’attaccare, al punto da guidare l’attaché militare tedesco in un tour delle gigantesche fabbriche di armamenti sovietici in Siberia e negli Urali, come a voler stabilire una sorta di mutually assured destruction pre-nucleare.

Alla fine dei conti riuscì solo a posticiparla, sovvertendo la Yugoslavia ed obbligando i tedeschi a condurre una dispendiosa campagna nei Balcani in soccorso al rocambolesco tentativo italiano di invadere la Grecia.

E in seguito – con costi umani e materiali fuori da ogni immaginazione – a vincerla: finito in carneficina il tripolarismo in Europa, anglo-franco-americani e sovietici si spartivano lo sconfitto Reich e la sua sfera d’influenza. L’Unione Sovietica – anche grazie alle decisioni strategiche di Stalin – usciva dalla seconda guerra mondiale come la principale potenza del continente eurasiatico.

LA COSTRUZIONE DEL BIPOLARISMO

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Dal finire della seconda guerra mondiale fino alla sua morte nel 1953, la politica europea di Stalin si muove lungo un’unica direttrice: una persistente razionalizzazione dei confini stabiliti da Yalta.

A farne le spese per primi dal nostro lato della cortina saranno i comunisti greci – sostenuti “solo” da yugoslavi ed albanesi nella loro guerra civile contro monarchici e britannici – e quelli italiani, le cui aspirazioni rivoluzionarie vengono stroncate sul nascere da Mosca, in quei 3 turbolenti anni segnati dalla smobilitazione dei partigiani, dall’esclusione dei comunisti dal governo e dall’attentato a Palmiro Togliatti. Naturalmente Mosca mantiene il controllo dei partiti comunisti ad ovest della cortina, che rimarranno uno strumento d’influenza, ma all’interno di limiti ben definiti.

L’Unione Sovietica inoltre ritira le sue truppe dalle aree curde ed azere dell’Iran, dove i bolscevichi locali avevano già instaurato delle repubbliche popolari pronte ad entrare nell’Unione, per non rischiare un conflitto aperto con USA e Regno Unito.

Nell’Europa di pertinenza sovietica invece – dove un’URSS più leninista o trotzkysta avrebbe teoricamente assorbito gli stati europei nell’Unione – la via percorsa da Stalin è quella di un blocco integrato – dove certamente il predominio sovietico non può essere messo in discussione – tra stati separati. Quello che l’URSS avrebbe guadagnato in potenza “aritmetica” annettendo questi stati, avrebbe perso in termini di coesione interna e di costruzione di un vero e proprio popolo “sovietico”. Oltreché in un maggiore rischio di guerra con il blocco occidentale e in un rapporto decisamente più ostile con gli stati europei oltre cortina.

La razionalizzazione non si esprime soltanto nel rispetto dei limiti fissati con le potenze occidentali, ma anche nel tentativo di eliminare le “teste di ponte” all’interno di quello che è il limes percepito dell’impero sovietico: il blocco di Berlino – formatasi la bizona angloamericana e fallito il tentativo di neutralizzare la Germania, di cui Stalin era il principale sostenitore – e il via libera al tentativo di riunificazione manu militari da parte della Corea del Nord, entrambi falliti dopo una strenua resistenza americana che l’URSS non volle testare con ulteriori escalation, incassando le sconfitte.

In ogni caso, le iniziative per ridurre piuttostoché aumentare la superfice dello scontro assumono il peso maggiore. E trovano dall’altra parte un blocco occidentale – al netto delle “incomprensioni” reciproche – piuttosto favorevole, intento a ricostruirsi, non in grado di condurre una guerra convenzionale in Europa e in procinto di perdere il possesso esclusivo dell’arma nucleare, con il primo test sovietico – frutto sia del lavoro del KGB che di un brutale quanto efficace sistema di gulag nucleari creato da Stalin – conseguito già nel 1949. Aldilà della competizione globale in fieri entrambe le potenze sono soddisfatte della loro posizione, nonché consce dei danni che arrecherebbe una guerra.

La strategia di razionalizzazione dell'URSS nel dopoguerra
La strategia di razionalizzazione dell’URSS nel dopoguerra

TRARRE UN BILANCIO

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Di Stalin non si può certo dire che adottasse una politica estera non aggressiva, viste le invasioni di Finlandia e Polonia, gli ultimatum alla Romania e ai baltici, i colpi di mano in Corea e in Germania.

Ciò che può portarci a definirlo a tutti gli effetti un grande stratega, però, è la sua comprensione del concetto di potenza, e di come essa abbia un limite. Un limite che è quasi sempre inferiore a ciò che le armate potrebbero mettere sotto il proprio controllo nel breve periodo.

Un concetto che è sfuggito a molti condottieri nella storia, da Alessandro Magno a George W. Bush – passando per Napoleone – e che ne ha segnato sempre il fallimento strategico.

Per quanto si possano giudicare negativamente l’uomo e aberranti molte delle sue politiche interne – la deportazione di intere etnie, la collettivizzazione forzata, la repressione indiscriminata e il sistema dei gulag – questo va riconosciuto.

Stalin si è spinto fino ai limiti di ciò che la potenza della sua rivoluzione prima, e del suo stato poi, potevano ottenere. Non oltre, lasciando ai suoi successori uno dei più grandi imperi che il mondo abbia mai conosciuto.

La sua politica estera è ancora gravida di lezioni per le potenze di oggi, mentre scelgono se integrare nuovi territori o meno – pensiamo all’espansione forse eccessiva dell’UE, che ha finito per minare la sua coesione interna – se convenga espandere una guerra o mettervi fine per dirigere le proprie risorse verso teatri più prioritari – un dilemma che Stalin affrontò nel dimenticato conflitto strisciante con il Giappone fino alla primavera del 1939, e che oggi gli USA si trovano ad affrontare in Ucraina – o mentre tentano di navigare in un pericoloso tripolarismo, segnato da diffidenze, conflitti ideologici e dilemmi di sicurezza come Israele, Arabia Saudita e Iran ai giorni nostri.

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