Questo post è la seconda parte su tre [PRIMA PARTE | TERZA PARTE] di una serie sull’influenza italiana in nordafrica dall’unità d’Italia ad oggi. Seguito da un quarto contributo sulla guerra civile libica oggi ed Enrico Mattei.
La seconda guerra mondiale è finita, l’Italia è un paese sconfitto e occupato che ha firmato una resa incondizionata. I comunisti hanno abbandonato l’ipotesi insurrezionale, il paese è quindi saldamente in mano all’anglosfera.
Per quanto riguarda le colonie, gli americani detteranno criteri per la decolonizzazione più stretti di quelli imposti per i mandati dopo la prima guerra mondiale, salvo poi subito dopo sostenere la controguerriglia francese ed olandese nel sudest asiatico. In linea di massima, quel che è chiaro è che le colonie italiane diverranno tutte indipendenti, chi prima chi dopo.
Va segnalato che, nonostante l’Italia fosse emarginata da tutte le trattive di pace prima, e da quelle sulle colonie (argomento che fu rimandato a dopo la firma del trattato di pace, come lo furono alltri) poi, De Gasperi si spese parecchio in via informale affinché l’Italia mantenesse le colonie acquisite prima dell’avvento del fascismo, opinione condivisa da pressoché tutto l’arco parlamentare. Anche dai comunisti.
E qui la situazione inizia ad assumere i tratti di una commedia.
Nel ’49 il ministro degli esteri italiano (Carlo Sforza) e quello inglese (Ernest Bevin) raggiungono un compromesso sulla questione coloniale italiana, con l’obiettivo di creare un consenso all’ONU per una risoluzione di maggioranza.
Secondo questo compromesso – a partire dal ’51 – vi sarebbe stata un’amministrazione fiduciaria italiana di 10 anni sulla Somalia, l’Eritrea sarebbe stata divisa tra Sudan ed Etiopia – con particolare riguardo alla popolazione italiana – e la Libia sarebbe stata spartita: Cirenaica agli inglesi, Fezzan ai francesi e Tripolitania agli italiani.
Questo compromesso era quanto di meglio si potesse ottenere in una situazione simile, e chiaramente era visto dagli inglesi come un modo per aumentare i propri territori coloniali.
Ma qualcosa andò storto: All’assemblea generale delle Nazioni Unite la risoluzione fu sconfitta per un solo voto: Quello del rappresentante di Haiti, presentatosi completamente ubriaco e farneticante alla votazione, non sapendo neanche cosa stava votando.
E così – per un’accidente della storia – la Libia divenne subito unita ed indipendente (tramite una seconda risoluzione), l’Eritrea venne annessa dall’Etiopia e all’Italia non rimase nulla se non l’amministrazione fiduciaria in Somalia.
MATTEI, GRONCHI, FANFANI
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Una nuova possibilità di penetrazione italiana in Nord Africa si presentò con la Crisi di Suez del 1956.
Paradossalmente, essere rimasti senza colonie si rivelò un vantaggio quando i movimenti anti-coloniali iniziarono a porre seri problemi a Francia ed Inghilterra. Si vide l’opportunità di legarsi ai nuovi movimenti indipendentisti o ai nuovi regimi postcoloniali per guadagnare posizioni nella regione a scapito dei nostri storici rivali: E’ la strategia che il “geopolitico militante” Jean Thiriart definirà (lodandola) “matteismo”.
Quest’opportunità venne colta a livello politico da una frangia della Democrazia Cristiana, facente capo all’allora Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi – autore di un audace viaggio in Iran per aprire la pista a nuovi legami energetici, in aperto contrasto con il suo governo – e al segretario della DC e futuro premier Amintore Fanfani.
Ma il capostipite di questa nuova strategia nazionale fu certamente il Presidente di ENI, Enrico Mattei.
Mattei si fece molti nemici, supportando apertamente – ad esempio – il FLN algerino e andando contro al cartello delle “sette sorelle” petrolifere, superando la tradizionale spartizione 1/3 – 2/3 delle rendite petrolifere con il paese ospitante, e realizzando invece accordi al 50/50, joint ventures con i paesi arabi e l’Iran, scuole di formazione in Italia per tecnici stranieri.
Sarà un caso, direte, che dopo aver ricevuto per anni minacce dall’OAS (una formazione terroristica francese formata da militari ed ufficiali coloniali franco-algerini) e non solo, l’aereo di Mattei precipitò misteriosamente nel 1962, un giorno prima della visita programmata di Mattei a Washington, dove Kennedy lo avrebbe accolto come un capo di stato. E che nel cruscotto furono rinvenute prove di una carica esplosiva. E che dopo la sua morte l’ENI – nuovo Presidente Eugenio Cefis – fece decadere gli accordi di estrazione nel Sahara algerino.
Sicuramente furono coincidenze: Anche il pizzino mafioso del Financial Times di due giorni antecedente la morte di Mattei: “Will Signor Mattei have to go?“.

GLI ANNI ’70 E LA GUERRA ARABO-ISRAELIANA
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Nonostante l’omicidio di Mattei mise un freno agli slanci più ambiziosi dell’Italia nella regione, la politica – che viene definita dagli storici “neo-atlantista” – di azione autonoma in Nord Africa e nel Vicino Oriente, non si fermò.
Con i governi di centrosinistra DC-PSI questa politica continua.
Il colpo di stato del ’69 in Libia ad opera di Gheddafi e dei suoi liberi ufficiali, sebbene avesse un carattere – dal punto di vista propagandistico – fortemente anti-italiano (La monarchia libica era vista come una prosecuzione del dominio coloniale), divenne in seguito l’occasione per sfruttare le immense riserve petrolifere che erano state originariamente scoperte proprio da un italiano. Con Gheddafi si siglarono degli accordi in tal senso già negli anni ’70.
Gheddafi diventa di fatto un protetto italiano, tanto che – la sua protezione – probabilmente costò all’Italia l’abbattimento di un aereo civile, nell’incidente di Ustica.
Poi, nel 1973, scoppiò la guerra arabo-israeliana, anche detta guerra dello Yom Kippur.
Di questa guerra parleranno in seguito gli storici militari come la guerra che rese chiaro – per la prima volta – quanto sia dispendiosa in termini di materiali una guerra convenzionale su larga scala ai giorni nostri. Entrambe le parti, infatti -pur dotate di forze armate ben equipaggiate, finirono velocemente le loro scorte di munizioni, e dovettero chiedere rifornimenti ai propri alleati internazionali: Gli arabi all’URSS, gli israeliani agli USA.
In questo caso è interessante la posizione italiana. Il governo Moro, infatti, fu l’unico insieme a quello francese, nel blocco occidentale, a non supportare economicamente o diplomaticamente Israele.
In seguito, quando i paesi dell’OPEC attuarono un embargo nei confronti dei paesi che supportavano Israele – causando una crisi energetica in Europa – l’Italia (incapace la CE di agire indipendentemente dagli USA, caduta pienamente nella trappola dell'”anno dell’Europa” di Kissinger) si adoperò per trovare nuove fonti di approvigionamento: In primis in URSS, in secundis nei paesi arabi, particolarmente in Libia.

SIGONELLA
Ancora una volta – nel 1985 – l’Italia proverà a non seguire la linea anglo-americana nei rapporti con il mondo arabo.
Quando un commando palestinese sequestra il traghetto italiano Achille Lauro nel Mediterraneo, l’Italia cerca di mediare tramite Abu Abbas, capo del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, una fazione scissionista dell’OLP.
Abu Abbas viene intercettato in volo dall’aviazione americana, che lo dirotta sulla base aerea di Sigonella, in Sicilia.
Il Presidente del Consiglio Craxi, però – informato della cosa – ritiene che Abu Abbas debba essere preso in custodia dalle autorità italiane. Su questo punto rimane inamovibile. Segue uno stallo alla messicana nella base aerea di Sigonella con membri della Delta Force e dei Carabinieri arrivati ad un passo dallo scontro a fuoco. Una scena mai vista tra due paesi dell’Alleanza Atlantica, forse il punto di maggior rottura mai raggiunto dall’Italia con gli Stati Uniti dall’inizio dell’occupazione.
Craxi volle difendere la politica filo-araba dell’Italia fino alle estreme conseguenze, ed ebbe ragione di Raegan, dopo diverse – e concitate – telefonate. Abu Abbas fu preso in custodia dalle autorità italiane e poco dopo scomparve, probabilmente in Yugoslavia.

Pochi anni dopo finì la guerra fredda, gli angloamericani vinsero la terza guerra mondiale di fila, gli equilibri internazionali cambiarono rapidamente.
Senza più l’URSS a fare da referente a regimi arabi ostili, Israele fu in grado di espandere la sua influenza nella regione mediorientale senza freni (tranne poi quello iraniano che iniziò a svilupparsi all’inizio degli anni 2000), di lì a poco anche l’Italia abbandonerà la politica filo-araba e filo-palestinese diventando più filo-sionista (anche se sempre con alcuni distinguo, volti alla mediazione, rispetto all’ultrasionismo angloamericano).
In Nord Africa restano formalmente al potere i vecchi regimi: Mubarak, Gheddafi, Boumedienne, Ben Bella. Ma è evidente che ora la potenza (quasi) egemone possa, e voglia, sbarazzarsene. E così farà 20 anni dopo la fine della guerra fredda, con tutto quello che ne conseguirà dal punto di vista dell’influenza italiana nella regione.
10 pensieri riguardo “Petrolio e Palestina”