Incenso e Nervino – Lo scisma ucraino

DI SYNESIUS CYRENENSIS // PRIMA PARTE

Eravamo un tempo divisi, ma ora siamo uno: Una Chiesa Unita, rivolta a questa Grande Santità, per ricevere ciò che era stato implorato. […] Compiuto questo Sacramento, ci uniamo a Dio e fra di noi come un unico corpo, la Chiesa, il cui capo è lo stesso Salvatore, Gesù Cristo

Facendo risuonare queste parole in lingua ucraina nella Cattedrale di San Giorgio nel Fanar, a Istanbul, il 6 Gennaio 2019, il Metropolita di Kiev, Epifanio, accettava la grande pergamena del tomos di autocefalia dalle mani del Patriarca Ecumenico Bartolomeo, alla presenza di una folla di prelati e uomini di Stato, fra cui il presidente ucraino Poroshenko. La retorica ridondante, ampollosa e magniloquente della predicazione ortodossa, che così efficacemente si rispecchia nell’imponente iconostasi della chiesa, illuminata da grandi lampadari di ottone e cristallo, come anche nelle vesti sontuose e colorate degli ecclesiastici, insiste sul tema dell’unità, celebrando trionfante l’unità della Chiesa Ucraina ma al contempo obliquamente alludendo ad una unità spezzatasi nel contesto più ampio dell’Ortodossia. Di lì ad un anno, il tomo della discordia avrà creato due compagini fra le Chiese ortodosse: da una parte Costantinopoli, Alessandria, i Greci, Cipro, che riconoscono la Chiesa Ortodossa d’Ucraina appena nata, dall’altra il Patriarcato di Mosca, la Serbia, la Romania, Antiochia e Gerusalemme, che non riconoscono l’autocefalia. Per capire come si sia giunti a questo e che cosa questi avvenimenti significhino, bisogna tornare indietro nel tempo, perché, come spesso accade quando si parla di Chiesa, le svolte hanno una lunga incubazione e si riallacciano – per lo meno nell’immaginazione e nell’intenzione dei loro protagonisti – addirittura ad un passato quasi mitico.

TRE ROME E TRE KIEV

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Nel caso dell’Ucraina e della Russia questo passato mitico non può che essere la Rus’ di Kiev, la prima grande entità statale degli slavi orientali, fiorita all’incirca fra il X e l’XI secolo. Alla Rus’ di Kiev fanno risalire la propria identità nazionale sia i russi che i bielorussi e gli ucraini e, conseguentemente, anche la storia delle rispettive Chiese viene fatta iniziare con il battesimo del re kievano Vladimir I nel 988. All’inizio la Chiesa nella Rus’ faceva capo al Metropolita di Kiev, la capitale dello Stato, ma con il tempo il baricentro del potere politico si spostò verso nord-est a causa delle varie invasioni che colpirono la città. Fu così che si arrivò alla preminenza, anche ecclesiastica, di Mosca a partire dal Basso Medioevo.

Il cristianesimo fra gli Slavi era stato portato da Costantinopoli, sicché il Metropolita di Kiev dipendeva dal Patriarca Ecumenico e, anzi, per i primi secoli della sua storia il posto fu spesso occupato da un greco. Con l’affermarsi di Mosca, tuttavia, la Metropolia si allontanava sempre più da Costantinopoli, finché, fra XV e XVI secolo, prima unilateralmente con uno scisma e poi con un riconoscimento da parte del Patriarca Ecumenico, essa ottenne l’autocefalia e il rango di Patriarcato – il primo dopo i cinque patriarcati storici (Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme). La Chiesa in Ucraina però aveva mantenuto legami non solo con Costantinopoli, ma anche con i latini: fu così che, nello stesso periodo di tempo, una gran parte della Chiesa Ucraina accettò la comunione con Roma. Gli oppositori dell’unione, fra cui spiccavano i Cosacchi, si dibatterono a lungo fra la fedeltà alla loro chiesa madre di Costantinopoli e le avances di Mosca. Alla fine, con una serie di eventi torbidi che forse comprendono anche casi di simonia, il Patriarca di Mosca riuscì ad ottenere nel 1686 la facoltà di eleggere il Metropolita di Kiev. Da allora, la Chiesa Ortodossa Ucraina subì una progressiva russificazione e si cercò di diminuire l’importanza del Metropolita di Kiev rispetto al Patriarca di Mosca. Questo processo proseguì sostanzialmente invariato anche nel passaggio dal regime zarista all’Unione Sovietica.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, i tedeschi che avevano invaso l’Ucraina Sovietica favorirono la nascita di una chiesa locale indipendente da Mosca: la Chiesa Ortodossa Autocefala Ucraina (CA). Dopo la sconfitta tedesca, la CA sopravvisse solo in diaspora, priva di riconoscimento canonico da tutte le altre Chiese Ortodosse. La svolta avvenne negli anni ’90 con la caduta dell’Unione Sovietica: non solo gli esiliati della CA fecero ritorno in Ucraina, ma il Metropolita di Kiev, Filaret Denysenko, scismatizzò dal Patriarcato di Mosca per fondare la Chiesa Ortodossa Ucraina-Patriarcato di Kiev (PK). Sicché, dagli anni ’90 fino al 2018, tre Chiese Ortodosse erano presenti sul territorio ucraino: la CA, il PK e la Chiesa Ortodossa Ucraina-Patriarcato di Mosca (PM). Di queste, l’unica riconosciuta canonicamente dagli altri ortodossi era il PM, la Chiesa che dipendeva dalla Russia e la più numerosa e diffusa sul territorio.

Monastero di San Michele, Kiev
Monastero di San Michele, Kiev

DIVORZIO ALL’ORTODOSSA

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La situazione iniziò a mutare nel 2016 quando, separatamente, la CA, il PK e il Parlamento ucraino fecero richiesta al Patriarca Ecumenico di Costantinopoli di concedere l’autocefalia. A queste voci si unì anche quella del presidente ucraino Poroshenko, con un intenso programma di lobbying presso il Patriarca Ecumenico per ottenere un’unica Chiesa Ucraina indipendente da Mosca. Costantinopoli si avvicinò progressivamente all’idea, con aperture successive, puntualmente seguite dalle rappresaglie di Mosca, fino al 2018. L’11 Ottobre di quell’anno, il Patriarca Ecumenico Bartolomeo compie il passo decisivo: ritira la scomunica di Filaret e dei prelati della CA e del PK, riconosce la validità dei loro sacramenti e rigetta la sottomissione della Metropolia di Kiev al Patriarcato di Mosca del 1686, col che disconosce il PM. Il 15 Ottobre, il Patriarcato di Mosca interrompe unilateralmente la comunione con Costantinopoli.

Il nuovo assetto dell’ortodossia in Ucraina è definito da un concilio tenutosi nel Dicembre 2018 fra i prelati della CA e del PK, con una esigua partecipazione di vescovi del PM. Le tre Chiese, nessuna delle quali ha ormai riconoscimento canonico, confluiscono nell’unica Chiesa Ortodossa d’Ucraina (CU). Filaret, personaggio scomodo (v. sotto), viene liquidato con il titolo di “Patriarca onorario di Kiev”, mentre il capo effettivo della CU è il Metropolita di Kiev, Epifanio – il delfino di Filaret. A questo punto, Bartolomeo può consegnare al Metropolita il tomos, il documento che sancisce l’autocefalia della CU: ciò avviene il 6 Gennaio 2019, a Istanbul.

Le ripercussioni di questi fatti si stendono lungo tutto il 2019. In Ucraina, singole parrocchie e diocesi del PM decidono di unirsi alla CU, mentre sia Mosca che Kiev dichiarano che energumeni e uomini armati ricattano parrocchiani e preti per farli aderire all’una o all’altra istituzione. Le altre Chiese autocefale sono costrette a prendere posizione. Il processo, nella maggior parte dei casi, è lento e laborioso, anche perché le Chiese stentano a trovare unanimità al loro interno. Verso fine anno la situazione è più chiara: Costantinopoli, Alessandria, i Greci, Cipro riconoscono la CU, le altre Chiese no. Fra queste, solo il Patriarcato di Mosca ha interrotto la comunione con chi riconosce la CU. Non si può dunque parlare di due schieramenti veri e propri, dato l’isolamento di Mosca e la posizione cerchiobottista di molte Chiese (serbi, rumeni, Antiochia e Gerusalemme). Inoltre, la mancanza di unanimità all’interno delle Chiese che hanno riconosciuto la CU viene sfruttata da Mosca, che mantiene con esse una sorta di “comunione differenziale”, rimanendo cioè in comunione con i vescovi che, nei rispettivi sinodi, hanno dimostrato contrarietà al riconoscimento della CU: in questo modo i russi indeboliscono l’autorità del primate di quelle Chiese, in una sorta di applicazione ecclesiastica della moderna dottrina militare russa.
Infine, questa situazione ha pesanti ricadute sulle terre di diaspora dove spesso i vescovi ortodossi che, servendo etnie diverse, convivono nello stesso spazio politico, avevano formato conferenze episcopali e organi di lobbying collettivi, dai quali oggi i prelati russi sono costretti a secedere.

Un maidanista bacia la mano di Filaret, attuale Patriarca Onorario
Un maidanista bacia la mano di Filaret, attuale Patriarca Onorario

CEFALEA PER L’AUTOCEFALIA

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Come interpretare questi eventi? Dov’è il conflitto? Thomas Bremer, studioso di Chiese Orientali, sostiene che i problemi siano soprattutto di ordine canonico, molto meno etnico o geopolitico. Effettivamente, sebbene la differenza fra chi non riconosce la CU (Mosca, Serbia, Romania) e chi la riconosce (Costantinopoli, Grecia, Cipro) sembri a prima vista di natura etnica, bisogna tenere presente che la Serbia, per esempio, si trova in una situazione simile a quella della Russia nei confronti delle Chiese di Macedonia e Montenegro, sicché il suo rifiuto di riconoscere la CU potrebbe voler evitare un precedente pericoloso. Tanto più che, se la Serbia ha da sempre un rapporto privilegiato con la Russia, è anche vero che tutti i prelati serbi studiano e si formano in Grecia e nelle istituzioni del Patriarcato Ecumenico. Vale dunque la pena spendere qualche parola sulle implicazioni canoniche di questo conflitto.

Si definisce autocefalia il diritto di una Chiesa a eleggere il proprio capo senza dipendere dall’approvazione di qualcun’altro. Questo capo risulta poi – dal punto di vista della giurisdizione – di pari grado agli altri capi di Chiese autocefale, sebbene vi sia una gerarchia onorifica e di autorevolezza, il cui ordine tradizionale è Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme, Mosca. Già in questi semplici concetti si nascondono due grossi problemi. Il primo è quello di come si ottenga l’autocefalia. Il problema risulta chiaro se si osserva la lista dei patriarcati tradizionali: Roma è sparita dalla mappa dell’ortodossia, Mosca è molto più importante di quanto la tradizione non la faccia sembrare e sono assenti le Chiese autocefale nate fra XIX e XX secolo, come la Chiesa Greca, quella Bulgara, Serba, Rumena. Insomma, l’autocefalia sembrerebbe determinata più da un portato storico che da processi decisionali. In effetti, le già citate Chiese di nuova autocefalia sono iniziate da uno scisma che è poi stato normalizzato concedendo il tomos. Ma a parte questo processo instabile e rischioso, non esiste una procedura riconosciuta per concedere l’autocefalia.

Il secondo problema è il conflitto latente nella definizione tradizionale fra la struttura “federale” delle Chiese ortodosse e l’idea di una gerarchia onorifica con a capo Costantinopoli. La tradizione non offre indicazioni univoche su come interpretare il primato del Patriarca Ecumenico. Un esempio di questo problema di giurisdizione è rappresentato dall’interpretazione del Canone 28 del Concilio di Calcedonia, che assegna a Costantinopoli il primato sulle comunità ortodosse “fra i barbari”. Su questa base, e con interpretazione estensiva, il Patriarcato Ecumenico si arroga la giurisdizione di tutte le comunità ortodosse che sussistono in Stati non tradizionalmente ortodossi o dove sia assente un’altra Chiesa autocefala.

Quell’interpretazione entra in contrasto con un altro principio, meno concreto ma comunque importante, quello etnico. Sebbene di per sé non sia un requisito fondamentale, è pur vero che la gran parte delle Chiese autocefale corrisponde ad una etnia; in particolare, le Chiese nate più recentemente dalla disgregazione dell’Impero Ottomano (Greca, Bulgara, Serba, Rumena) si sono formate su questa base. Negli Stati Uniti, per esempio, il contrasto fra autorità ecumenica e principio etnico è aperto e irrisolto, data la presenza sullo stesso territorio nazionale, “fra i barbari”, di fedeli appartenenti a diverse etnie tradizionalmente ortodosse. Nel caso dell’Ucraina il principio etnico ha giocato un ruolo, se non nella discussione canonica, per lo meno nella volontà politica della CA e del PK di perseguire l’autonomia da Mosca.

Queste questioni canoniche erano già emerse in tutta la loro problematicità nel caso dell’indipendenza della Chiesa Ortodossa d’Estonia, concessa da Costantinopoli nel 1996 e non accettata da Mosca che, per alcuni mesi, rimase in scisma col Patriarcato Ecumenico. Il caso fu, per alcuni versi, simile a quello dell’Ucraina, con un’ex-Repubblica Sovietica che, nel processo di stabilirsi come entità politica indipendente dalla Russia, si vede nella necessità di rendere indipendente la propria Chiesa nazionale e, per fare ciò, si appoggia al Patriarcato Ecumenico. Fu anche per chiarire questi problemi canonici che Bartolomeo convocò a Creta un Concilio Pan-Ortodosso nel 2016, proprio in contemporanea alle richieste di autocefalia del PK e della CA. Il Concilio fu un fallimento: non solo dell’enorme numero di punti all’ordine del giorno rimasero alla fine dei lavori preparatori (2014-6) solo una manciata di temi, ma quattro Chiese rifiutarono di partecipare e di accettare i risultati del Concilio. Si trattava, guarda caso, del Patriarcato di Mosca, della Chiesa Georgiana, della Chiesa Bulgara e del Patriarcato di Antiochia.

LA VITTORIA SULL’ORDA DELL’EST

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Il principio etnico operante in molte di queste vicende, così come la faglia ricorrente fra Costantinopoli e Mosca rivelano, con buona pace di Bremer, la natura anche geopolitica di questi conflitti. Senza voler negare i problemi canonici, questi non avrebbero significato se non si sovrapponessero ad una realtà politica fatta di collettività e singoli agenti con progetti e rappresentazioni del mondo conflittuali. In altre parole, se non vi fossero delle inimicizie, non si porrebbero nemmeno i problemi canonici.

Che le richieste di autocefalia siano cominciate dopo l’Euromaidan e l’annessione russa della Crimea non è affatto un caso: il PM era da molti percepito come una quinta colonna russa in Ucraina e ci deve essere del vero in questa idea, se le parrocchie e diocesi del PM sotto occupazione russa hanno potuto mantenere la loro giurisdizione senza ulteriori interventi di Mosca. In effetti, i politici non esitarono a dare una lettura geopolitica dell’autocefalia. Il Segretario di Stato americano Mike Pompeo, in un commento del 10 Gennaio 2019, la equiparò sostanzialmente all’indipendenza nazionale ucraina e al ristabilimento del diritto alla libertà religiosa. Al contrario, Sergej Lavrov, in una conferenza stampa del Novembre 2019, sostenne che l’autocefalia fosse stata spinta e facilitata proprio dagli americani. Il caso più chiaro è quello di Petro Poroshenko, il presidente ucraino che molto si è speso per ottenere l’unificazione e l’autocefalia. Il suo impressionante discorso al termine del Concilio di unificazione del Dicembre 2018 esprime chiaramente i termini della questione: richiamandosi addirittura al battesimo di Vladimir e alla vittoria di suo figlio Yaroslav sulle “orde dell’Est”, Poroshenko equipara l’autocefalia al referendum e alla dichiarazione di indipendenza ucraina degli anni ’90, inserisce esplicitamente l’autocefalia nella più ampia strategia di avvicinamento all’Unione Europea e di allontanamento dalla Russia, evidenziandone sia i vantaggi tattici (“Dove oggi oscillano gli incensieri russi, razzi russi colpiranno domani”) che strategici (“stiamo parlando del ruolo unico di insegnanti e clero nella formazione della nazione e nel processo di costruzione dello Stato”).

Se tuttavia è abbastanza naturale che i politici diano una lettura politica degli avvenimenti, l’ennesima conferma del valore geopolitico di questi ci viene dai profili degli attori ecclesiastici coinvolti. Da essi non possiamo aspettarci un linguaggio esplicitamente politico ed è probabile che in molti di loro l’interesse canonico sia preponderante, e tuttavia è innegabile che anch’essi manifestino una loro politica.
Il più enigmatico di questi è Filaret, il Patriarca di Kiev. Fino agli anni ’90 era stato un fedele prelato di Mosca, tanto che il suo era uno dei nomi papabili per l’elezione a Patriarca nel 1990. Bisogna ricordare che essere un prelato nell’URSS significava avere ampi contatti con gli apparati del regime comunista e, nel caso di Filaret, sono provati i contatti col KGB. D’altra parte, non appena l’Ucraina ebbe dichiarato l’indipendenza nel 1991, Filaret si mise a capo dei vescovi ucraini che intendevano ottenere l’autocefalia per Kiev. Ne seguì un conflitto con Mosca (e si noti che Filaret non si rivolse a Costantinopoli), a seguito del quale Filaret fu scomunicato e ridotto a stato laicale dai russi. Ciononostante, Filaret è rimasto in questi anni un simbolo dell’indipendenza della Chiesa ucraina. Eppure, al momento di formare la CU, egli fu estromesso dal potere vero e proprio; ufficialmente, perché non sembrava opportuno avere come Metropolita di una Chiesa autocefala uno che, tutto sommato, aveva creato uno scisma, ma c’è da chiedersi se non ci siano state motivazioni di ordine politico, dato il passato ambiguo di Filaret.
L’attuale Metropolita di Kiev, Epifanio, era stato segretario di Filaret e costituiva perciò un ottimo sostituto del suo mentore tanto più che il suo profilo è meno russocentrico: Epifanio non ha mai fatto parte del PM ma è sempre cresciuto nel PK, ha studiato ad Atene e, per le pubblicazioni che ha curato, è iscritto alla International Federation of Journalists.

La scelta di Epifanio dà credito alla lettura di Poroshenko della vicenda. In effetti, dal punto di vista maidanista si tratta chiaramente di affermare l’indipendenza da Mosca in un momento di guerra civile tra la parte “russa” e quella “ucraina” del paese, in cui la Russia è chiaramente l’attore principale coinvolto. Non stupisce nemmeno che l’affrancamento da Mosca passi attraverso Costantinopoli e l’Unione Europea: queste due direttrici ricalcano due delle tre tradizionali polarità fra le quali l’Ucraina – secolare e religiosa – si dibatte, ossia Roma (rappresentata nell’area da Polonia e Lituania), Costantinopoli e Mosca. L’autocefalia è, da questo punto di vista, un passo ulteriore della svolta a ovest dell’Ucraina dopo un lungo periodo – praticamente dal XVII secolo – in cui aveva più che altro guardato ad est. Tutto ciò risponde peraltro ad un buon principio tattico, ovvero di scegliere, fra due padroni, il più lontano e meno forte.

Separatisti filorussi dell'Armata Popolare di Lugansk si riscaldano attorno ad un fuoco
Separatisti filorussi dell’Armata Popolare di Lugansk si riscaldano attorno ad un fuoco

IL PATRIARCA ECOLOGICO

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Ad ogni modo, la figura più importante della vicenda rimane Bartolomeo I, Patriarca Ecumenico.
È stato Bartolomeo a precipitare gli eventi accettando le richieste del PK e della CA e, dato il precedente dell’Estonia e la situazione in Crimea, non poteva non sapere che il conflitto con Mosca sarebbe stato serio. Difficilmente un’azione così pesante sarà stata motivata solo dalla volontà di affermare un’interpretazione del diritto canonico.
Per capire Bartolomeo, bisogna ricordare quale sia la condizione oggi del Patriarcato di Costantinopoli. Il Patriarcato ha sede in Turchia e perciò è sottoposto alla legge turca; questa prevede che il Patriarca debba essere un cittadino turco. Naturalmente, per poter essere Patriarca deve essere cristiano di rito greco, il che, con una popolazione greca in Turchia ridotta al lumicino, rende molto difficile trovare candidati. Non aiuta nemmeno l’illegalità delle scuole teologiche e dei seminari in Turchia: la famosa scuola teologica di Halki, che ha formato Bartolomeo e gli ultimi tre Patriarchi, è chiusa dal 1971. Date queste premesse, non solo si può dire che il Patriarca Ecumenico si trovi rispetto ad Ankara in una situazione ben diversa dal Patriarca di Mosca rispetto al Cremlino, ma anche che alla morte di Bartolomeo (nato nel 1940) potrebbe non esserci un successore. La prima implicazione di tutto ciò è che difficilmente Bartolomeo avrà preso la sua decisione senza il permesso della Turchia, paese NATO e con interessi geo-strategici diametralmente opposti a quelli dei russi – soprattutto quando si parla di Crimea e Mar Nero.

In secondo luogo, la difficile posizione di Bartolomeo ci permette forse di comprendere la sua politica.
In continuità con i suoi predecessori sin da Atenagora (1948-72), egli persegue un riavvicinamento con le Chiese occidentali e tutte le altre confessioni religiose, con ampio uso di retorica dei diritti umani e del dialogo. Inoltre, ben prima di papa Francesco, Bartolomeo si impegna moltissimo sulle questioni ambientali, su cui torna spesso anche nella predicazione. Una rapida scorsa ai premi e riconoscimenti che ha ricevuto conferma il saldo ancoraggio di Bartolomeo nell’ordine geopolitico occidentale, di cui ripete volentieri le parole d’ordine e dei cui valori si fa promotore.
Questo posizionamento atlantista potrebbe essere funzionale alla difesa del suo Patriarcato, vuoi perché Bartolomeo spera di ottenere dalla pressione occidentale sul governo turco qualche concessione che permetta di assicurare la sua successione, vuoi perché, limitando il potere di Mosca, vorrebbe evitare che questa prevalga nel caso di una successione poco chiara.

Comunque stiano le cose, la Chiesa Russa si rende conto benissimo del progressivo scivolamento ad ovest del Patriarcato Ecumenico e non manca di farlo notare, per esempio mettendosi di traverso alle aperture ecumeniche verso gli occidentali. Da questa consapevolezza russa e dal fatto che, pur con degli spazi di autonomia, il Patriarcato e il governo di Mosca si muovono in stretto accordo (“sinfonia”, per usare le parole del Patriarca Kyril) bisogna far derivare la dura reazione del 15 Ottobre 2018, con la rottura della comunione prima con Bartolomeo e poi con tutte le Chiese che riconobbero la CU.

Se è vero, come dicono quelli di Limes, che il compito della geopolitica è di formulare previsioni, allora questo stato di cose ci deve condurre a prevedere che lo scisma non si risolverà tanto facilmente, perché, al di là dell’autocefalia ucraina, che pure per Mosca è di vitale importanza, le ragioni del conflitto fra Costantinopoli e la Russia sono più profonde: Mosca esercita una primazia di fatto mentre Costantinopoli, prima de iure, non ha le forze per mantenere il proprio primato e insieme la propria indipendenza. Anche qui il caso dell’Estonia nel 1996 è istruttivo: quello scisma si ricompose in pochi mesi, quello ucraino dura ormai da tre anni.

Bartolomeo I, Patriarca Ecumenico
Bartolomeo I, Patriarca Ecumenico

Le altre Chiese ortodosse eviteranno di prendere posizione a tutti i costi, giocandosi magari il loro ruolo di mediatore fra i due litiganti. Due candidati a questo ruolo parrebbero i più indicati: uno è la Chiesa Serba, con il suo rapporto privilegiato con la Chiesa Russa e al contempo la sua dipendenza culturale dai greci; l’altro è la Chiesa Greca stessa, che in questa crisi si trova schiacciata fra l’incudine e il martello. Da una parte, l’alleanza più naturale per la Chiesa di Atene è con Costantinopoli e un rafforzamento del Patriarcato Ecumenico sarebbe di sicuro visto di buon occhio, sia per motivi di prestigio della comune tradizione culturale, sia come spina nel fianco dei turchi. Dall’altra parte, lo Stato greco dipende dall’aiuto della Russia per difendere le isole dell’Egeo dalla Turchia. Questo fatto, apparentemente lontano dall’autocefalia ucraina, fu “ricordato” ai vescovi greci che si apprestavano a riconoscere il tomos dal ministro della difesa greco dell’epoca, Panos Kammenos. Ciò spiega la difficoltà con cui si giunse al riconoscimento della CU in Grecia e i malumori che ancora permangono intorno alla decisione. Anche in questo, la decisione di Bartolomeo gioca a favore della Turchia, perché intralcia uno degli assi su cui si muove l’alleanza russo-greca, cioè la comune appartenenza religiosa.

Quel che è certo è che lo scisma intorno all’Ucraina cristallizza un conflitto ecclesiastico che gli preesisteva e che da ora ci accompagnerà a lungo; al contempo esso segna una fase nuova della politica ucraina dopo trecento anni di sudditanza ai russi – e chissà se anche questa ci accompagnerà a lungo.

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