Le teorie sulla fine della storia, sulla pace democratica o addirittura la pace dei McDonald sono ormai screditate agli occhi dei più; ma la guerra convenzionale tra due stati di simile potenza, quantomeno nell’immaginario collettivo occidentale, sembrava davvero essere acqua passata. Il 2020 ci ha mostrato che non è così.
Negli ultimi 20 anni abbiamo visto lunghe occupazioni, guerre ibride come quella tra Hezbollah e Israele, guerre civili, operazioni di “peacekeeping”, il ritorno delle compagnie di ventura, annessioni perpetrate da “piccoli uomini verdi” senza insegne militari. Insomma, siamo ormai abituati ad un’idea di guerra fluida, spesso irregolare o tra forze impari, ma il conflitto tra Armenia e Azerbaijan ci ha riportati dritti nel secolo scorso.

La guerra tra pari nel 2020
Segui Inimicizie sui social
La situazione in Nagorno-Karabakh al 27 settembre 2020 era quella di un tipico “frozen conflict” post-sovietico: Le linee di fronte erano rimaste praticamente immutate da 26 anni, da quando il collasso dell’Unione Sovietica aveva portato allo scoppio delle ostilità tra i neonati stati dell’Armenia e dell’Azerbaijan, ostilità in cui prevalse l’Armenia e venne fondata la Repubblica (parzialmente riconosciuta) di Artsakh. L’Azerbaijan non ha mai abbandonato le sue pretese territoriali e nel disinteresse generale della comunità internazionale il conflitto era rimasto congelato, salvo qualche schermaglia di confine.
Dunque, non è servito un particolare pretesto all’Azerbaijan per rendere “caldo” il conflitto: Dopo aver dichiarato di aver subito un bombardamento di artiglieria sulle sue posizioni di confine (qua la mente va subito all’invasione sovietica della Finlandia) l’esercito azero ha lanciato la sua “controffensiva” prendendo di sorpresa sia gli armeni e i karabakhi che il mondo intero. Entrambi i paesi hanno mobilitato la popolazione, imposto il coprifuoco e restrizioni alla libertà di stampa, organizzato forze di volontari, arrestato agenti stranieri nel proprio territorio. Manca solo la dichiarazione di guerra, pratica cavalleresca caduta in disuso, per descrivere una perfetta guerra convenzionale.
Le forze armate azere erano sicuramente arrivate con una migliore preparazione al conflitto, sia dal punto di vista militare che dal punto di vista politico, avendo il supporto turco “con ogni mezzo” assicurato dal Presidente Erdogan, mentre gli armeni per tutta la durata del conflitto lanceranno disperati appelli alla Russia e all’Unione Europea, ma senza successo. Per quanto riguarda l’Unione Europea, posto che abbia la capacità di fare politica estera – cosa di cui dubitare è lecito – hanno sicuramente pesato i rapporti in continua espansione nel settore energetico con l’Azerbaijan. Sicuramente hanno pesato più di una solidarietà cristiana di facciata e delle ipocrite critiche al “dittatore” Erdogan, mai tradottesi in azione. Per quanto riguarda la Russia di Putin, invece, l’Armenia ha probabilmente pagato la “rivoluzione colorata” che nel 2019 ha portato al potere Nikol Pashinyan, ritenuto dal Cremlino, a ragione, troppo vicino alla NATO.
Il conflitto è terminato dopo un mese e mezzo circa di ostilità, con un cessate il fuoco mediato dalla Russia e un’accettazione di fatto totale degli ultimatum azeri da parte armena: L’Azerbaijan riprende gran parte dei territori persi durante la guerra del ’94 e il rimanente territorio della Repubblica di Artsakh resta collegato all’Armenia solo da una sottile striscia di territorio presidiata da truppe russe. In tutto si sono registrati circa 8000 morti e 150.000 sfollati.
Le due potenze interessate, Russia e Turchia, hanno entrambe ottenuto ciò che volevano: La prima ha riguadagnato la sua influenza sull’Armenia, controllando la sola forza d’interdizione che difende lo stretto passaggio tra territorio armeno e Repubblica di Artsakh – il corridoio di Lachin – la seconda ha visto espandersi territorialmente la “turcosfera” e di conseguenza la sua influenza politica e militare sulla regione, a spese del nemico giurato: L’Armenia.

L’importanza dei droni
Quanto i droni potessero essere determinanti in un conflitto tra pari si era gia visto con l’intervento militare turco nella guerra civile libica, a cui si deve la resistenza in extremis del Government of National Accord contro la Libyan National Army che ha portato al processo di pace, o meglio ad una nuova fase della guerra.
Proprio i droni turchi (ma non solo, anche quelli israeliani) sono stati usati dall’Azerbaijan contro le forze armene che, pur riuscendo ad abbatterne alcuni, si sono trovate del tutto impreparate dal punto di vista dottrinario e tecnologico ad affrontare questa nuova tecnica di guerra (si dice che la prassi tra le forze armene fosse abbandonare la posizione e fuggire al suono di un drone, e sinceramente non mi sorprenderebbe se fosse vero).
Le forze azere hanno usato il drone in due modi: in funzione Close Air Support contro i mezzi corazzati armeni e, questa forse è stata la funzione più cruciale, in funzione di ricognizione per fornire coordinate precise all’artiglieria a lungo raggio ed isolare le posizioni armene colpendo le loro linee di rifornimento, conquistandole poi con un assalto terrestre meccanizzato.
E’ chiaro che dotarsi di armi e dottrine anti-drone sarà, anzi gia è, un imperativo per ogni forza militare convenzionale o irregolare. Da questo punto di vista molti eserciti moderni sembrano essere ancora carenti e, se prima la questione si era posta solo da un punto di vista teorico o nei confronti di forze palesemente impreparate, ora è davanti agli occhi di tutti e sicuramente di questa lezione si è preso nota.


Un nuovo Ius Publicum Europeum ?
E’ possibile affermare che, in un mondo che ormai si può definire multipolare, in cui l’ex potenza egemone, gli Stati Uniti, non può e non vuole più intervenire in ogni singolo conflitto armato al mondo, la guerra tra stati come extrema ratio per la risoluzione delle controversie sia tornata ad essere qualcosa di possibile, di accettabile? Io penso di si.
Il mesto ritiro delle forze occidentali dall’Afghanistan è altamente simbolico da questo punto di vista, è la dimostrazione plastica del fatto che il “Nuovo ordine mondiale” a guida americana, basato sulla democrazia parlamentare, il libero commercio e l’aderenza alle istituzioni internazionali (strumenti dell’egemonia americana) non possa essere imposto con la forza. Russia e Cina, potenze nucleari, sfidano apertamente gli Stati Uniti, potenze regionali come la Turchia e l’Iran si ritagliano propri spazi di azione.
Quindi, ci troviamo in un’arena internazionale che sfugge al controllo di una singola potenza, un’arena in cui, incuneandosi tra gli interessi delle potenze maggiori (In questo caso: Interessi energetici europei, interessi politici russi e turchi convergenti) anche potenze minori possono intraprendere azioni militari per imporre la propria volontà su altri stati senza essere disturbate. Cosa che Saddam, 30 anni fa, non riuscì a fare.
Possiamo quindi aspettarci, dopo un periodo di sostanziale monopolio della forza internazionale da parte della NATO, di tornare ad una condizione più simile alla guerra fredda, ma ancora meno rigida, con più potenze, con meno ideologia e più competizione per le risorse. Un secolo in cui la guerra sarà probabilmente più frequente, ma anche più limitata a causa della limitatezza delle poste in gioco e dei mezzi a disposizione (non necessariamente le due parti saranno sempre rifornite da grandi potenze… la guerra moderna è estremamente dispendiosa). Un secolo quindi più simile al ‘700 o all”800 post-restaurazione che al ‘900 dal punto di vista bellico.
Non ci sarà da sorprendersi quindi se, nei prossimi 10 anni, vedremo delle nuove guerre convenzionali tra stati, come ad esempio tra Egitto ed Ethiopia a causa della disputa sulla Grand Ethiopian Renaissance Dam , o tra Kyrgystan e Tajikstan se gli scontri per i bacini idrici visti qualche mese fa dovessero degenerare, ma anche tra Ucraina e Russia se la situazione idrica in Crimea dovesse nuovamente deteriorare (L’Ucraina ha ostruito il canale che riforniva l’80% dell’acqua potabile alla popolazione della penisola) o gli accordi di Minsk dovessero essere definitivamente rigettati.
Guerre limitate, con obiettivi limitati e condotte senza che l’intera comunità internazionale debba prendere le parti di uno o dell’altro combattente, o peggio, promuovere azioni di polizia internazionale contro lo “stato canaglia” istigatore, facendo quindi passare la guerra da limitata a totale, con tutte le conseguenze che ne derivano dal punto di vista delle atrocità commesse da entrambe le parti e con la possibilità di dar vita ad uno scontro nucleare da cui nessuno uscirebbe vincitore.
Forse, se Carl Schmitt fosse ancora in vita, ne sarebbe lieto.

17 pensieri riguardo “Nagorno-Karabakh, il ritorno della guerra convenzionale”